Dott.ssa Raffaella Brangi - Biologa Nutrizionista Torino
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Alimentazione e depressione

15/1/2019

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La depressione è un disturbo psichico associato alla presenza di umore triste e irritabile che se non trattato in tempo può portare anche a modificazioni fisiche, fisiologiche o comportamentali gravi. Ha un'incidenza che si stima intorno al 10-15% nella popolazione adulta, con una maggiore frequenza nelle donne.

La depressione dal punto di vista neurobiologico è associata alla carenza di alcuni neurotrasmettitori (Serotonina, Dopamina e Norepinefrina), che hanno un ruolo determinante sul tono e l'umore.
I più comuni farmaci antidepressivi attualmente in uso, infatti, agiscono proprio sull'aumento della biodisponibilità di questi neurotrasmettitori. Alcuni inibendo la ricaptazione e quindi aumentando la presenza degli stessi, altri invece inibendo le monoamminossidasi ovvero gli enzimi che intervengono nella degradazione di queste molecole.

Recentemente è stata avanzata anche un'ipotesi infiammatoria (Krishandas and Cavanagh, 2012).
E' stato dimostrato, infatti, che le citochine pro-infiammatorie sono determinanti nella modulazione del tono dell'umore, attraverso tre diversi meccanismi:
  • agendo sui neurotrasmettitori,
  • riducendo la neurogenesi,
  • attivando un enzima specifico che depleta di serotonina il cervello "portandolo" così nel tempo ad un verso è proprio stato depressivo.

E' stato osservato, infatti, che i pazienti in uno stadio depressivo avanzato presentano elevati livelli di citochine infiammatorie (proteina C reattiva, TNF alfa e interleuchina 6). E' stato visto inoltre che, patologie infiammatorie derivanti ad esempio da stress cronico, componenti socio-comportamentali alterate e trattamenti oncologici presentano un maggior rischio di sviluppare questo disturbo. Sembra infatti che, in questi casi, l'infiammazione agisca non solo come fattore "precipitante" nei soggetti predisposti ma anche come fattore che tende a "perpetuare" la depressione impedendone qualunque forma di recupero.
Molto spesso allora si instaura con il cibo un meccanismo compensatorio. Ad esempio, comunemente i pazienti depressi aumentano la loro preferenza per i carboidrati, in quanto questi sono correlati a meccanismi serotoninergici, con effetti migliorativi sul tono dell'umore. Solo apparentemente però, e a breve termine. Infatti l'assunzione incontrollata di carboidrati e soprattutto di zuccheri semplici, con ricorrenti "abbuffate", porta ad un peggioramento nel tempo e a lungo termine dello stato infiammatorio e dell'umore, oltre che a gravi conseguenze sulla salute in generale. E' evidente che il paziente depresso tende a fare scelte poco salutari e non controllate nei confronti del cibo (Kiecolt-Glaser, 2010).

E' il cibo stesso però che, associato a regolare attività fisica, può essere la soluzione in questi casi. Non a caso si parla di "effetto antidepressivo del cibo". Scegliere in modo consapevole cosa mangiare ed associare un regolare esercizio fisico diminuisce non solo la predisposizione alle principali patologie cardiovascolari, ma migliora anche l'umore.

Vediamo allora come il cibo può fungere da antidepressivo migliorando la biodisponibilità dei neurotrasmettitori , riducendo nel contempo l'infiammazione.

Alimenti come:
  • Latte, formaggi magri, uova, agnello e sardine sono ricchi di triptofano, precursore della serotonina.
  • Avena, grano saraceno, avocado, cozze, aragosta e gamberoni sono ricchi di vit B6, utile anche questa per la sintesi di serotonina.
  • Legumi e verdure a foglia verde sono ricche di acido folico che favorisce la sintesi di dopamina.
  • Alimenti ricchi di acidi grassi polinsaturi come pesce azzurro, semi e frutta secca proteggono i neuroni dal danno ossidativo, riducendo i livelli di citochine pro-infiammatorie.
  • Antiossidanti presenti in frutta e verdura ed in particolare l'epigallocatechina-3- gallato, presente nel tè verde, è stato ampiamente dimostrato essere in grado di ridurre lo stress ossidativo, l'infiammazione e favorire i fattori di crescita neuronali. Alcuni studi hanno dimostrato anche la capacità dell'epigallocatechina-3-gallato di migliorare le funzioni cognitive legate all'attenzione e alla memoria anche in età avanzata.
  • La curcumina, infine, presente nella curcuma (spezia di colore giallo simile allo zafferano - di cui abbiamo parlato in un precedente articolo), oltre a possedere proprietà anti-infiammatorie ed anti-ossidanti, può alleviare i sintomi della depressione aumentando la neurogenesi nell'ippocampo e nella corteccia frontale del cervello. E' stato dimostrato che la curcumina migliora quindi la funzionalità neuronale ma previene anche dalla degradazione neuronale. Essendo una molecola lipofila è altamente biodisponibile perché in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e assolvere la sua funzione neuroprotettiva.

Seguiamo, quindi, l’antico principio “Mens sana in corpore sano”; è possibile, con una corretta educazione alimentare, mantenere il nostro benessere fisico e mentale.

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Sindrome dell'Intestino Irritabile

10/9/2018

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La sindrome dell'intestino irritabile (Irritable Bowel Syndrome, IBS) è una problematica abbastanza frequente e caratterizzata da alterazioni di tipo funzionale dell'intestino, in assenza di lesioni anatomiche specifiche.

Pur essendo del tutto benigna, la IBS è però in grado di influenzare negativamente la qualità della vita con un'incidenza del 20-30% sulla popolazione e con un'età media tra i 30 e 40 anni (periodo di vita in cui solitamente l'individuo è al massimo dell'attività lavorativa e dello stress).

I disturbi associati all'IBS sono correlati ad un'aumentata sensibilità intestinale con fasi alterne dell'alvo (diarrea e stipsi) spesso associati anche a gonfiori addominali, flatulenza,  sensazione di pesantezza dopo i pasti, addome dolorante, e in alcuni casi anche sintomi extraintestinali ginecologici, della minzione, mal di testa e letargia.

In Gastroenterologia una prima definizione della sindrome dell'IBS fu data data nel 1962 da Chaudhary e Truelove, più tardi  incorporata nei Criteri di Manning (1978). Oggi i criteri di Roma che hanno avuto diverse versioni, l'ultima la "Roma IV" pubblicata nel 2016, sono quelli più accreditati ed utilizzati per la diagnosi.

Secondo i criteri di Roma IV si parla di IBS quando si ha dolore addominale ricorrente per almeno 1 giorno a settimana negli ultimi tre mesi, associato a due o più dei seguenti aspetti che sono correlati:
1. alla defecazione
2. ad un cambiamento della frequenza della defecazione
3. ad un cambiamento della forma (aspetto) delle feci
 
Si può dire che esistono tre forme di IBS:
- prevalente stipsi con dolore addominale cronico ( numero di evacuazioni inferiore alle tre volte a settimana, feci dure o caprine, evacuazione dolorosa o incompleta
- prevalente diarrea senza dolore (scariche giornaliere superiori a tre e feci non formate)
- alternanza di stipsi e diarrea

Un aspetto ancora da chiarire oggi è l'eziologia del disturbo. Le cause infatti sono multifattoriali anche se nei soggetti con IBS vi è in comune un'alterazione della sensibilità intestinale, dovuta presumibilmente ad un'alterazione della microflora intestinale causata spesso da abitudini alimentari non corrette e da fattori genetici, stress emotivi, alcol e fumo.

Sebbene non esista una cura specifica, se non strettamente mirata a migliorare il singolo sintomo che si presenta (diarrea, stipsi, gonfiore, distensione addominale), l'approccio dietetico  ed il corretto stile di vita rappresentano al momento il miglior intervento terapeutico. Intervento che deve essere stabilito soprattutto attraverso l'anamnesi del paziente.  Particolare attenzione deve essere posta al contenuto calorico degli alimenti ed in particolare alla qualità dei grassi ingeriti, in caso di deficit enzimatici alla qualità e quantità degli alimenti contenenti lattosio, alla valutazione dell'introito di fibre e fruttosio nella dieta, non tralasciando poi l'importanza degli aspetti comportamentali legati alla corretta masticazione dei cibi, al corretto introito di liquidi e alla regolare attività fisica.
 
In caso di diarrea è necessario anzitutto intervenire reintegrando i liquidi persi (bevendo 1,5L-2L di acqua al giorno non gassata, a piccoli sorsi e a temperatura ambiente) e seguendo per qualche giorno una "dieta in bianco" eliminando:
-  dolci, zuccheri semplici, caffè e bevande alcoliche,
- latte e latticini, preferendo quelli stagionati come il grana o il parmigiano, 
- alimenti ricchi di fibre (verdure crude, frutta con buccia e cereali integrali)
- verdure e alimenti produttori di gas come cavolfiori, broccoli, rape e legumi
-  caramelle o gomme da masticare contenenti sorbitolo o xilitolo (perchè hanno un blando effetto lassativo).

E' necessario, inoltre, reintegrare la perdita di sali minerali (sodio e potassio) utilizzando sale da cucina, brodi vegetali, banane e polpa di mele che hanno anche un blando effetto astringente e associare fermenti lattici per un  rapido ripristino della microflora intestinale.

In caso di stipsi va gradualmente aumentata l'assunzione di fibra (cereali integrali, frutta mangiata con buccia, verdure e legumi) associando una corretta assunzione di liquidi (1,5-2l di acqua al giorno). Può essere utile, ad esempio, bere già 1 bicchiere di acqua tiepida al risveglio mattutino e associare infusi ad effetto carminativo come melissa, finocchio, anice, camomilla. Le fibre insolubili aumentano la massa fecale favorendo la peristalsi intestinale, quelle solubili creano delle mucillagini formando materiale viscoso che rende le feci più morbide, lubrificate e voluminose.

Un buon approccio riabilitativo in questi casi è il monitoraggio costante del paziente a cui si associa in base al caso uno specifico un trattamento dietetico mirato per qualche mese fino ad ottenere la riduzione della frequenza, della durata ed dell'intensità dei sintomi.

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Le malattie cardiovascolari

26/2/2018

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Con il termine malattie cardiovascolari si intendono diverse situazioni cliniche che hanno in comune come unica causa, un'alterazione della parete arteriosa.
L'arteriosclerosi descrive l'ispessimento, l'indurimento e la perdita di elasticità della parete vasale delle arterie. L'aterosclerosi  è un tipo particolare di arteriosclerosi che colpisce le grandi e medie arterie. Quest'ultima caratterizzata dalla formazione di placche fibroadipose che si formano nell'intima arteriosa (ateromi) soprattutto nell'aorta, nella arterie coronarie e nelle arterie cerebrali e che possono produrre una stenosi del lume vascolare. Nella pratica i due termini vengono utilizzati indistintamente.

La formazione della placca ateromasica, che interessa le pareti dei vasi arteriosi e che rappresenta la lesione caratteristica di questa malattia, inizia con l'ingresso di lipidi, soprattutto colesterolo LDL, nella tonaca interna (intima) dell'arteria. Questo tipo di alterazione, che si può osservare nei soggetti a rischio già durante l'infanzia, va  incontro ad un lento processo che porta alla placca vera e propria. Nel tempo, l'accrescimento della placca determina la protusione del lume vasale, fatto che compromette l'irrorazione ad organi serviti da quell'arteria, oppure la trombosi/tromboembolizzazione della placca che si verifica a seguito della rottura del cappuccio fibroso che la riveste, e che porta ad una repentina ostruzione del vaso arterioso sede della placca ( o di vasi arteriosi più a valle nel caso di embolizzazione).

Le cause di tutto ciò possono essere genetiche ma soprattutto ambientali (legate cioè allo stile di vita). Per questo motivo, mettere in atto tutte le misure di prevenzione rappresenta lo strumento efficace per ridurne il rischio. Nel trattamento delle patologie cardiovascolari, l'intervento nutrizionale e la modificazione dello stile di vita o TLC (Therapeutic Lifestyle Chanching) sono considerati aspetti propriamente terapeutici. Se infatti alcuni fattori di rischio non sono modificabili in quanto legati al sesso, alla predisposizione genetica e alla familiarità, altri fattori così detti modificabili possono essere ridotti intervenendo preventivamente e a lungo termine con una corretta alimentazione, con un'attività fisica costante e con la completa eliminazione del fumo.

Studi epidemiologici condotti negli ultimi decenni sulla popolazione occidentale dimostrano che dal dopoguerra ad oggi, e già dopo i primi quindici anni, è aumentata in maniera esponenziale l'incidenza di complicanze cardiovascolari. Sovrappeso e adiposità addominale, così come altre alterazioni metaboliche (ipertensione, resistenza all'insulina, ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia) sono infatti legati agli eccessi alimentari che caratterizzano l'epoca moderna. Al contrario con apporti calorici adeguati e associando il regolare consumo di certi alimenti, prevalentemente di origine vegetale,  può essere ridotto il rischio cardiovascolare.

Molti studi confermano, infatti, che una dieta su base vegetale e caratterizzata da un consumo costante di acidi grassi polinsaturi (contenuti in abbondanza nella frutta secca, nei semi oleaginosi e nel pesce azzurro) a differenza di quelli saturi o trans (contenuti nelle carni, uova, formaggi e in tutti junk food) riduce il rischio di malattia coronarica. Diversi studi osservazionali e trials dietetici (Journal of Human Nutrition and Dietetics, Cardiology journal) sono concordi nel dire che l'ingestione di acidi grassi polinsaturi a dispetto di quelli saturi, produce una riduzione importante del colestrolo-LDL .
In particolare l'acido alfa-linolenico (omega-3),  integrazione tra l'altro utilizzata nella terapia in prevenzione secondaria, ha una potenziale azione antitrombotica, antinfiammatoria e di miglioramento della funzione endoteliale (Kris-Etheterton, 2002).
Alimenti ricchi di folati e di antiossidanti come polifenoli, vitamina E e carotenoidi (presenti in abbondanza nella verdura verde e giallo-arancione, nella frutta, negli oli vegetali e nella frutta secca) così come il consumo di  isoflavoni della soia, soprattutto in donne in post-menopausa, sembrerebbero avere poi un ruolo determinante sulla suscettibilità all'ossidazione delle lipoproteine LDL e sulla comparsa dell'ateroma.
Anche la fibra alimentare (Studio CARDIA-The Coronary Artery Risk Development in Young Adults) svolge un ruolo importante nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. In particolare è stato visto che, l'ingestione di fibra, senza tener conto del tipo, è correlata inversamente con la pressione arteriosa, il peso, l'indice vita-fianchi, e le concentrazioni di trigliceridi, insulina e fibrinogeno.
Nel Nurse's Health Study al follow-up a 10 anni si è osservata una riduzione del 37% del rischio di malattia cardiovascolare per ogni incremento di 5 g al giorno di fibra alimentare. E' possibile però affermare che, mentre la fibra insolubile (contenuta nei cereali integrali) si dimostra utile ma non determinante nella riduzione del colesterolo LDL, la fibra solubile (contenuta ad esempio nei legumi) riduce significativamente le concentrazioni di colesterolo LDL del 5-10 % se introdotta regolarmente con la dieta. La fibra solubile, infatti, interrompe la circolazione enteroepatica e di conseguenza l'assorbimento dei lipidi e del colesterolo contenuto negli alimenti.
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Alla luce di tutto questo e considerando il fatto che, ogni giorno, acquisisce sempre più rilevanza l'associazione tra modello di "dieta occidentale" e rischio di malattie cardiovascolari, l'adeguato consumo e la preferenza di alimenti di origine vegetale come frutta, verdura, cereali integrali, ma anche di frutta secca e di alcuni oli vegetali, è alla base del nuovo approccio dietetico proposto dalla letteratura scientifica e dalle recenti linee guida internazionali, sia come semplice fattore preventivo in caso di normopeso, sia come trattamento dietetico nella riduzione del peso corporeo.

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Il benessere cutaneo - alimentazione e stile di vita

21/1/2018

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Con il passare degli anni, la pelle subisce modificazioni a livello cellulare e strutturale. Si parla di crono-invecchiamento e si traduce in un lento cambiamento dell'aspetto esteriore. 
Il tessuto cutaneo, più di ogni altro organo, essendo maggiormente esposto a fattori esterni (radiazioni solari, sbalzi di temperatura, inquinamento, ecc.) subisce questo graduale processo. 

Se è vero che i modi e i tempi d'invecchiamento dell'organismo, pelle inclusa, dipendono dal nostro patrimonio genetico, alcuni fattori possono infatti accelerarlo:   

  • le radiazioni UV (sole e lampade artificiali) possono causare nel tempo secchezza cutanea , depigmentazione della pelle, cheratosi, macchie e lentiggini;
 
  • lo smog ed il fumo di sigaretta sono responsabili del così detto smoker's face con conseguente perdita di elasticità dell'epidermide, comparsa di rughe e segni evidenti sulla pelle;
 
  • lo stress è responsabile di forte irritabilità, tendenza all'arrossamento, colorito spento, probabile comparsa di eruzioni cutanee; 
 
  • la menopausa che provoca la riduzione della produzione di estrogeni (ormoni che influenzano la rigenerazione cellulare) e determina una diminuzione della densità cutanea con un assottigliamento dell'epidermide; 
 
  • la disidratazione che determina un'immediata secchezza cutanea, con possibili screpolature e la comune sensazione di pelle ruvida al tatto;   
 
  • i repentini cambiamenti climatici sono spesso responsabili di una profonda disidratazione; 
 
  • un regime alimentare sbilanciato con poca frutta e verdura che, associato ad un'eccessiva assunzione di alcolici e/o farmaci, innesca processi ossidativi con formazione di radicali liberi e conseguente danno delle strutture cellulari;

In particolare, poi, alcune sostanze contenute negli alimenti sono capaci di influenzare in modo profondo il DNA, di interferire con le difese immunitarie e gli equilibri ormonali, di contrastare la formazione dei radicali liberi e l'invecchiamento cellulare.
Tra queste
: 
  • la vitamina A presente nei grassi animali (es.tuorlo d'uovo, burro, olio di fegato di merluzzo) o sotto forma di beta-carotene nella frutta e nella verdura gialla e arancione (es. carote, albicocche, zucca, melone, patate dolci, pomodori secchi) e negli ortaggi di colore  verde scuro (es. spinaci, rucola e broccoli);

  • la vitamina E presente in oli vegetali, frutta secca (es. mandorle e noci), semi, ortaggi a foglia verde, cereali integrali, germe di grano, asparagi avocado, fegato, uova; 

  • la vitamina C presente in molti tipi di verdura e frutta fresca (es. agrumi, kiwi, fragole, peperoni, pomodori, cavolfiori, broccoli, verdure a foglia verde);
​ 
  • le vitamine del gruppo B in particolare la B5 o acido pantotenico fondamentale per l'attività delle cellule e la rigenerazione dei tessuti (presente ad esempio in carni, uova, funghi, crostacei, lievito di birra) e la B12 che dà energia (come fonte affidabile presente solo nei cibi di origine animale);
​ 
  • il selenio (presente nel lievito, germe di grano, riso e altri cereali integrali..) ed il coenzima Q10 (presente in piccole quantità in sardine, sgombri, soia, frutti oleosi e germe di grano);
​ 
  • gli acidi grassi essenziali come omega-3 e omega-6 determinanti nel garantire l'elasticità del collagene e controllare i processi infiammatori (presenti in frutta secca, semi e oli di origine vegetale, pesce azzurro come aringhe, alici, salmone, sgombro..);
​  
  • i polifenoli contenuti nelle fonti vegetali (frutta e verdura fresca) attivi nella ricostruzione del collagene e nel mantenimento di una pelle giovane e radiosa. 

L'età ha quindi il suo peso, ma agire d'anticipo con uno stile di vita sano è possibile. Se è vero che "siamo ciò che mangiamo" (Ludwig Feuerbach 1804-1872), sono soprattutto i cibi che portiamo in tavola a determinare la bellezza della nostra pelle. 
Seguire una dieta equilibrata, ricca di antiossidanti e povera di sodio, bere molta acqua, mantenersi in esercizio fisico, evitare fumo ed alcol, evitare lunghe esposizioni al sole e dormire a sufficienza sono tutti interventi utili a contrastare i lenti processi legati all'invecchiamento cutaneo.  ​

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Alzheimer - Ruolo dell'alimentazione

26/11/2017

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L'Alzheimer (MA), secondo la definizione data dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è una forma di demenza degenerativa primaria corticale ad eziologia multifattoriale che compromette in modo graduale ed irreversibile le funzioni cognitive, comportamentali e funzionali dell'individuo che ne è affetto.

In termini di costi sulla spesa  sanitaria la MA si classifica al terzo posto, dopo le neoplasie e le malattie cardiovascolari, con conseguenze molto importanti che si ripercuotono in termini economici, assistenziali e psicologici anche sulle famiglie che se ne fanno carico.

Negli Stati Uniti il numero di persone affette da MA è stimato in  circa 4 milioni, mentre in Italia le cifre sono comprese tra 300.000 e 600.00 secondo le diverse stime; si prevede comunque che queste cifre possano raddoppiare entro il 2020.

Tra i numerosi fattori non modificabili che concorrono alla malattia (es. genetica ed età),  ve ne sono altri così detti ambientali che sono modificabili in quanto legati allo stile di vita e all'alimentazione. Questi fattori possono essere presi in considerazione come preventivi nei confronti della malattia.

Se andiamo ad analizzare:
  • l'età è il maggiore fattore di rischio non modificabile. Come è noto, il numero di soggetti che ne vengono colpiti aumenta con l'avanzare dell'età.  Si stima un'incidenza pari all'1,2 per 1000 persone/anno nella fascia di età 65-69 anni e 63,5 nella popolazione con più di 90 anni.
  • la familiarità altro fattore di rischio non modificabile, si ritiene che può far aumentare il rischio di insorgenza della malattia da 3 a 7 volte in base al grado di parentela.
  • la genetica estremamente complessa per la MA, in quanto nella maggior parte dei casi non strettamente connessa ad un modello mendeliano di ereditarietà.

A tutto questo si aggiungono poi fattori ambientali che sembrerebbero concorrere alla patogenesi della malattia.
In particolare, alcune patologie croniche come l'ipertensione arteriosa, le malattie cardiovascolari, il diabete mellito, l'obesità-sovrappeso, l'ipercolesterolemia sembrano rappresentare tutti  fattori predisponenti, dovuti a meccanismi legati all'insulino-resistenza, alla ridotta produzione di acido nitrico, all'eccesso di radicali liberi e a metaboliti infiammatori.

Dati epidemiologici confermano infatti che la MA è maggiore nelle persone che seguono diete ricche di colesterolo e grassi saturi (contenuti nei derivati di origine animale) e povere in fibre. 
E' stato visto in particolare che elevati livelli ematici di colesterolo (1), obesità e adiposità addominale nell'età media e presenza di sindrome metabolica, rappresentano tutti possibili fattori di rischio (2). Al contrario, l'elevata assunzione di antiossidanti, composti polifenolici , vitamina E e C contenuti in abbondanza in alimenti di origine vegetale come frutta e verdura (3) sembrerebbero avere un importante ruolo neuroprotettivo e di mantenimento della neuroplasticità. E' stato osservato, poi, che anche gli isoflavoni della soia in donne in post menopausa  sembrerebbero assolvere un ruolo protettivo in quanto legati alla inibizione e all'accumulo di aggregati di beta-amiloide (4).
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Sempre più evidente è, quindi, l'innegabile beneficio che  una dieta mediterranea, strutturata su base vegetale, può avere anche nel contrastare le malattie neurodegenerative come l'Alzheimer.
Anche in questo ambito, il punto di partenza per la prevenzione è consumare giornalmente 4 o 5 porzioni tra frutta e verdura, preferire prodotti non raffinati come riso, pane e pasta integrali, moderare il consumo di sale, ridurre il consumo di carne rossa, utilizzando, invece, più spesso  legumi, carne bianca, pesce e formaggi magri.

1. Midlife vascular risk factors and Alzheimer's disease in later life: longitudinal, population based study - Kivipelto 2001
2. Metabolic syndrome and cognitive decline in French elders: The Three-City Study - Raffaitin 2011
3. The incidence of dementia and intake of animal products: preliminary findings from the Adventist Health Study - Giem 1993.
4. Isoflavones and Alzheimer's disease: the effects of soy in diet - Habib 2014

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Osteoporosi

12/6/2017

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La perdita di massa ossea con l'età è un processo fisiologico ma, quando supera una certa entità, diventa una malattia cui si dà il nome di osteoporosi e che rappresenta il disturbo più comune del metabolismo minerale osseo in età avanzata.  L'osteoporosi è caratterizzata da una compromissione della resistenza ossea che predispone a un maggior rischio di fratture che rappresentano l'epifenomeno clinico della malattia, pur potendo decorrere per anni anche in maniera del tutto asintomatica.

Attraverso la correzione dello stile di vita e il trattamento farmaco-terapeutico è possibile in molti casi ridurre o addirittura arrestare il decorso della malattia.

Uno studio recentemente condotto dall'OMS ha evidenziato che l'osteoporosi interessa, attualmente, oltre 75 milioni di persone in Europa, Stati Uniti e Giappone, con un rischio stimato del 15% di andare incontro ad una frattura vertebrale del polso o dell'anca nell'arco della vita. E' stato, inoltre, pronosticato che nel 2050 l'osteoporosi interesserà tra i 7,3 e i 21,3 milioni di persone nel mondo. Solo in Italia studi epidemiologici, con dati raccolti tra il 1999 e il 2000, mostrano che la malattia nel sesso maschile riguarda il 14,5% dopo i 60 anni ed il 22,8% delle donne dopo i 40 anni.

La massa ossea dipende dal bilancio tra la quantità di osso formato dagli osteoblasti e la quantità di osso riassorbito dagli osteoclasti. Così la massa ossea aumenta nelle prime tre decadi di vita (in maniera importante nelle prime due e lievemente nella terza) per raggiungere il picco di massa ossea tra i 20 e i 30 anni. Il picco di massa ossea raggiunto alla maturità scheletrica (20-30 anni) è il principale fattore che incide sulla massa ossea nelle età successive ed è determinante nello sviluppo dell'osteoporosi.  La massa ossea in una certa età è determinata, infatti, dalla risultante della differenza tra osso acquisito durante l'accrescimento (massa ossea del picco) e quella persa nelle epoche successive, perdita che si accelera dopo la menopausa a causa della carenza di estrogeni. Dopo la menopausa, infatti, l'assenza di estrogeni favorisce la scomparsa dell'inibizione dell'attività osteoclastica con conseguente aumento del ritmo di demolizione ossea. Contemporaneamente il calo di estrogeni compromette l'efficacia del riassorbimento intestinale del calcio alimentare e, come conseguenza, diminuiscono i livelli ematici di calcio con conseguente aumento di paratormone (PTH) che riporta la calcemia a livelli normali attraverso la stimolazione del riassorbimento dell'osso. L'effetto netto è la perdita di massa ossea.

Alcuni fattori nutrizionali o dello stile di vita, così come la presenza di altre patologie associate, possono comunque accelerare la perdita ossea indipendentemente dal calo estrogenico. Le cause predisponenti dell'osteoporosi sono, infatti, definite multifattoriali e sono legate a predisposizione genetica, stato fisiologico, apporto di calcio, vitamina D, attività fisica, peso corporeo e non ultimo alimentazione.

Per prevenire l'osteoporosi  l'obiettivo è:
  • raggiungere nelle prime fasi della vita dell'individuo un picco di massa ossea ottimale adottando un corretto regime alimentare ed un corretto stile di vita  (prevenzione primaria);
  • porre una diagnosi precoce attraverso interventi strumentali come la densitometria minerale ossea (MOC) o la DEXA (Dual-emission X-ray absorptiometry) considerate il gold-standard per la valutazione della densità minerale ossea (prevenzione secondaria).

Secondo le linee guida internazionali OMS (Organizzazione mondiale della sanità) nell'ambito della prevenzione primaria è inoltre necessario:
  • Astenersi dal fumo;
  • Evitare il sedentarismo e favorire l'attività fisica;
  • Evitare deficit di vitamina D assicurando una corretta esposizione al sole e, se necessario, intervenire  con opportune integrazioni  (la vitamina D è prodotta dal nostro organismo a partire dal colesterolo ma, per essere convertita nella forma attiva, la D3 detta anche colecalcilferolo, è necessaria l'esposizione al sole);
  • Promuovere uno stato nutrizionale corretto con adeguate assunzioni di calcio (1000-1200 mg /die) e proteine ad alto valore biologico (soprattutto negli anziani) principalmente di fonte vegetale evitando gli eccessi per mantenere un buon equilibrio acido-base.

Questo è possibile attraverso un uso appropriato di alimenti ricchi di calcio e vitamina D come latte vaccino e/o bevande vegetali addizionate (latte di riso, di soia ecc.), yogurt, legumi, frutta secca (es. mandorle),  semi oleaginosi (es. sesamo), verdure (es. rucola, radicchio verde, cavolo cappuccio, indivia, tarassaco, foglie di rapa, carciofi, broccoletti di rapa), erbe aromatiche (salvia, rosmarino, basilico, menta), pesce azzurro (es. sgombro e salmone) e uova.  Anche un buon apporto idrico è necessario e l'acqua già contiene buone fonti di calcio (es. acque minerali bicarbonato-calciche).
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In conclusione, nell'ambito di una dieta varia ed equilibrata, non facciamo mai mancare questi alimenti incidendo, a scopo preventivo, in modo corretto sulle nostre abitudini alimentari e sul nostro stile di vita. 

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La dieta vegetariana

4/1/2017

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Da tempo diversi studi epidemiologici hanno dimostrato la stretta correlazione tra “occidentalizzazione della dieta” ed insorgenza di patologie cronico degenerative e cardiovascolari.
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Partendo dal presupposto che, nel contesto di uno stile di vita sano e di una dieta bilanciata, non si può prescindere dall'incoraggiare ad adottare un modello di “dieta mediterranea”, così detta “plant-based”, che segue, in modo attento, i canoni ed principi dettati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e che esso rappresententa un modello di riferimento si può considerare che, soprattutto negli ultimi tempi, a fronte anche degli oramai noti aspetti benefici sulla salute in generale, sempre più diffusa è la completa scelta “vegetariana o vegana” che si basa su motivazioni oltre che salutistiche anche etiche ed ambientali.

Per definizione, la dieta vegetariana esclude il consumo di tutti i tipi di “animal flesh” (cioè tutti i tipi di carne come, ad esempio, quella bovina e suina, il pollame, la selvaggina, i pesci e tutte le specie acquatiche); sono ovviamente esclusi anche tutti i prodotti di trasformazione industriale (come insaccati, patè e sushi).
Più precisamente, il modello latto-ovo vegetariano esclude tutti i tipi di carne includendo, invece, latte e derivati (formaggi e latticini), uova, miele ed un’ampia varietà di tutti i gruppi di alimenti vegetali.

Il modello vegano esclude tutti i tipi di carne, latte e derivati (formaggi e latticini), uova e miele, consumando invece un’ampia varietà di alimenti vegetali.

Considerando che il profilo nutrizionale di questi due principali modelli dietetici può presentare un’estrema variabilità individuale in dipendenza al tipo e alla quantità di alimenti vegetali consumati ed al loro grado di trasformazione, si comprende che una dieta vegetariana o vegana è un’ottima scelta solo se ben fatta e programmata.

Secondo le più recenti linee guida internazionali, la USDA (United States Department of Agricolture), l’American Dietetic Association e la SSNV (Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana), le diete vegetariane infatti sono ampiamente in grado di soddisfare le raccomandazioni di nutrienti indicate per la popolazione.

Nella programmazione di una dieta vegetariana è necessario soddisfare il fabbisogno energetico individuale, facendo particolare attenzione alla biodisponibilità e all’adeguatezza nutrizionale di particolari nutrienti che possono essere potenzialmente critici in questo tipo di dieta (proteine ad alto valore biologico, vitamina B12, ferro, zinco, calcio, vitamina D ed omega-3).

A tale scopo è necessario consumare un’ampia varietà di cibi vegetali, favorendone la complementarietà e ricordando che le principali fonti:
  1. proteiche sono contenute in legumi, frutta secca, soia e derivati come tofu, tempeh ed hamburger vegetali;
  2. di ferro sono contenute in legumi, cereali fortificati da colazione, insalate e radicchi verdi, frutta disidratata (albicocche, prugne, uva sultanina);
  3. di calcio sono contenute in cereali da colazione, bevande fortificate (succhi di frutta), bevande a base di soia e cereali, verdure scure e a foglia (a basso contenuto di ossalati);
  4. di zinco sono contenute in legumi, cereali fortificati per la colazione (semi di zucca e germe di grano), latte e derivati;
  5. di vitamina B12 sono contenute in latte e derivati, uova ecibi addizionati come cereali da colazione, bevande vegetali e hamburger vegetali;
  6. di omega-3 sono contenute in cibi fortificati, olio di semi di lino, olio di semi di soia e noci sgusciate;
  7. di vitamina D sono contenute in cibi fortificati, non tralasciando l’importante quota endogena prodotta dal nostro stesso organismo con l’esposizione al sole.

Si può concludere, quindi, che una dieta vegetariana o vegana, seguita in modo consapevole, programmato e attento rappresenta allora una valida alternativa alimentare alla canonica dieta mediterranea. 

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Educazione al cibo nella prima infanzia

26/1/2016

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Le preferenze alimentari nella primissima infanzia, si caratterizzano per la predominante influenza di fattori biologici, genetici e costituzionali nonché da variabili individuali. Ciò porta il bambino ad avere un orientamento preferenziale al gusto dolce, in opposizione all'amaro e al salato, garantendo attraverso questa scelta innata un adeguato intake nutrizionale attraverso l'assunzione del latte materno.

Nei primi quattro anni di vita, si sviluppano i quattro gusti fondamentali: dolce, amaro e salato. Attraverso una serie di segnali, sono attivati gli organi di senso che agiscono secondo una precisa sequenza funzionale; traduzione (ricezione del segnale dal mondo esterno), trasmissione (trasferimento dell'informazione al cervello) ed integrazione (identificazione ed immagazzinamento dello stimolo e segnale esterno).

Accanto a questi fattori endogeni però, come sempre, svolge un ruolo di primaria importanza il rapporto madre-bambino che si costituisce attraverso l'allattamento nei primi mesi, sia al seno che artificiale, e con lo svezzamento nei successivi. 

L'allattamento e la nutrizione del bambino nei primi mesi di vita, infatti, rappresenta non solo una necessità alimentare nella sua più stretta accezione ma un più ampio e complesso momento di incontro e scambio tra madre e bambino.

L'alimentazione in età pediatrica e, soprattutto nel primo anno di vita, risulta essere strettamente correlato al futuro stato di salute dell'adulto.

Un periodo critico è rappresentato dallo svezzamento, momento in cui avviene il passaggio all'alimentazione semisolida e successivamente solida. Costituisce una vera e propria tappa di sviluppo e di crescita per il bambino ma anche di criticità per i genitori che si trovano spesso un po' disorientati a far fronte ai primi rifiuti.

La complessità di questo processo dipende da diversi aspettI; passaggio graduale a cibi e consistenze diverse rispetto al latte, accesso a gusti nuovi come l'amaro ed il salato, sviluppo della masticazione e della deglutizione, progressiva autonomizzazione della capacità di nutrirsi.

Terminato il divezzamento, poi, sono le abitudini alimentari dei genitori che influenzano in maniera importante le scelte alimentari del bambino.

Secondo recenti studi, infatti, è proprio la famiglia che determina l'avversione o la preferenza del bambino per determinati cibi anche in età adulta. In particolare, si stima che circa l'85% delle mamme assume mai o raramente cibi non graditi ed il 68% di loro non propone mai, o raramente, ai propri figli cibi che essi non gradiscono.

Tali risultati dimostrano l'opportunità di fornire ai genitori supporti adeguati per la gestione dell'alimentazione del bambino.

È anzitutto con il proprio esempio che un genitore riuscirà a proporre al figlio un'alimentazione varia ed equilibrata, controllando la disponibilità e l'accessibilità del cibo a casa.

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Alcool: abuso ed effetti sull'organismo

20/11/2015

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Il consumo di bevande alcoliche risale agli albori della civiltà ed è parte integrante della cultura mediterranea ed europea come simbolo di convivialità e sacralità. Si pensi al culto di Dioniso o ai racconti della Bibbia che attribuisce al patriarca Noè la prima ubriacatura della storia.

Da sempre, studi scientifici esaltano da un lato le virtù associate al buon vino, che se usato con moderazione rappresenta addirittura un fattore preventivo delle patologie cardiovascolari, dall'altro sempre più studi mettono in evidenza i potenziali rischi legati al suo abuso. Il discorso è ovviamente incentrato non sul vino in sé, di cui l'Italia ha il vanto di essere uno dei primi produttori al mondo, ma sull'uso e abuso soprattutto di superalcolici.

Nell'ultimo decennio, numerosi dati epidemiologici, come evidenziato dall'Istituto Superiore della Sanità, mettono in luce come l'uso di bevande alcoliche sia aumentato soprattutto tra i giovani.
La diffusione dei danni alcol correlati rappresenta uno dei più pressanti problemi di salute pubblica nei paesi occidentali.
Due aspetti destano particolare allarme: l'abbassamento dell'età di primo uso e l'aumento di donne bevitrici.
La facile disponibilità, la diffusa accettazione sociale ed i profondi cambiamenti degli stili di vita possono portare ad un ben definito "binge drinking" con comportamenti a rischio.
Secondo l'Istituto Superiore di Sanità, i comportamenti a rischio sono dichiarati dal 18,9% della popolazione totale e nella fascia di età 11-17 anni dal 23,3% dei ragazzi ed dal 14% delle ragazze. I consumi di alcol fuori pasto nella fascia di età 18-24 anni sono poi aumentati negli ultimi anni dal 33,7% al 41,9%. Secondo le stime, diminuisce il divario uomini donne con un abuso di bevande alcoliche che coinvolge sempre più anche la popolazione femminile. Questi dati confermano quelli già evidenziati nel 2005 dall'European Monitoring Center for Drugs and Drugs Addiction che descriveva il fenomeno come "narrowing of the gap"  riduzione del divario ragazzi/ragazze. Tutto questo ovviamente si correla ad un aumento di patologie quali depressione e disordini alimentari, definiti nell'insieme come EDNOS (Eating Disorders Not Otherwise Specified). Evidenze cliniche dimostrano come, a parità di alcol ingerito, le donne hanno una concentrazione ematica di alcol nettamente superiore (3-4 volte) a quella maschile. Questo è dovuto fisiologicamente ad una minore capacità per le donne di metabolizzare l'alcol a fronte di una differente attività enzimatica ed ormonale.
L'alcol non è un nutriente al pari di proteine, carboidrati e lipidi, il suo valore energetico è di 7 Kcal/g e non svolge, a differenza di vitamine ed oligoelementi, funzioni plastiche o regolatorie di processi metabolici. La velocità di assorbimento  dell'alcol è elevata e sembra aumentare linearmente con il contenuto alcolico delle bevande fino ad un limite massimo per valori del 20-30%, al di sopra dei quali prevale l'azione irritante della mucosa intestinale. L'alcol etilico è completamente miscibile in acqua e supera agevolmente, per semplice diffusione passiva, sia la barriera digestiva che quella ematoencefalica; questo spiega l' estrema sensibilità del Sistema Nervoso Centrale (SNC).
A livello dell'apparato gastroenterico, la bocca, l'esofago e lo stomaco sono i più esposti all'azione tossica dell'etanolo per contatto diretto. Può essere lesa poi la mucosa dell'intestino tenue, con conseguente alterazione della motilità e relativa sindrome da malassorbimento con carenze nutritive per deficit di vitamine quali tiamina B1, piridossina B6, vitamina A ed acido folico.
Il metabolismo dell'alcol etilico si svolge principalmente a livello epatico, attraverso la via dell'alcol deidrogenasi (ADH), del Microsomal Ethanol Oxidizing System (MEOS) e della catalasi. Queste producono sostanze ad azione tossica che se iperstimolate spiegano i danni funzionali e strutturali anche gravi a livello epatico e di altri organi che possono insorgere.

Un consumo moderato e consapevole, perciò, è fondamentale per evitare l'insorgere di dannose dipendenze.
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Idratazione e bilancio idrico

16/8/2015

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L'acqua è l'alimento più abbondante ed è indispensabile per l'organismo. È il principale componente del corpo umano e rappresenta circa il 55-60% del peso corporeo di un adulto e circa il 75% del peso di un neonato.

Sorgente di vita e di benessere, l'acqua ricopre circa i 5/7 della superficie terrestre e dal punto di vista chimico è l'unico composto che in natura è presente allo stato liquido, solido e gassoso.

L'acqua è necessaria per le reazioni biochimiche che avvengono nel nostro organismo, per la regolazione della temperatura corporea, per l'eliminazione di minerali e sostanze organiche, per la digestione, l'assorbimento, trasporto ed utilizzazione dei nutrienti.

Il bilancio idrico è il rapporto tra i volumi d'acqua in entrata e in uscita dall'organismo, un rapporto che deve essere costantemente mantenuto in equilibrio. Attraverso le urine, le feci, la sudorazione e la respirazione, infatti, il nostro copro elimina continuamente acqua che deve essere reintegrata. Se il bilancio idrico non è rispettato si possono avere tutti i sintomi che comunemente sono legati alla disidratazione: secchezza orale, cefalea, irritabilità, insonnia, astenia.
Perdite superiori al 10% sono incompatibili con la vita. Il centro della sete, che si trova nella regione ipotalamica del nostro cervello, regola questo complesso meccanismo, il cui equilibrio dipende dalla corretta funzionalità renale per l'eliminazione controllata di acqua ed elettroliti e da un sistema di recettori nervosi che segnalano all'organismo la necessità di assumere acqua attraverso lo stimolo della sete. Questo insorge tutte le volte che il volume totale dell'acqua nell'organismo diminuisce dell'1-2%. Spesso, però, ci si accorge di essere assetati solo quando la perdita di acqua è già stata tale da provocare i primi effetti negativi. Meglio, quindi, tentare di anticipare il senso della sete o provvedere subitamente.

Il fabbisogno di acqua per adulti e anziani è di 1 ml di acqua per ogni kilocaloria alimentare introdotta durante la giornata. Ciò corrisponde ai raccomandati 6/8 bicchieri di acqua al giorno, circa 1,5-2litri. I bambini che sono a maggior rischio di disidratazione hanno necessità di quantità maggiori, circa 1,5 ml/kcal/giorno. L'acqua, comunque, ricordiamo che è già contenuta in molti alimenti come latte, frutta e verdura. Con l'avanzare dell'età, poi, il tenore idrico dell'organismo diminuisce a causa della minore capacità di ritenzione dei tessuti e la capacità di risposta del centro della sete diventa meno pronta, di conseguenza aumenta il rischio di disidratazione.
Assumere liquidi durante l'esercizio fisico promuove un'adeguata idratazione, infatti, è noto che una riduzione del 5% del peso corporeo con la sudorazione compromette la performance fisica (M. Gleeson et al. 1996). La rapidità di assimilazione da parte dell'organismo in questi casi è fondamentale per bilanciare prontamente le perdite, per tale motivo, la bevanda da usare prima o durante l'attività sportiva dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: minima permanenza nello stomaco, rapido assorbimento. Si consiglia una bevanda ipotonica, una con eccessiva concentrazione di zuccheri o sali disciolti avrebbe, infatti, l'inconveniente di "fermarsi" a lungo nello stomaco, rallentando l'assorbimento dell'acqua da parte dell'organismo. Una soluzione adatta deve avere una percentuale di zuccheri intorno al 4-5% e una minima quantità di elettroliti (sodio 10-20 mEq/l pari a circa un grammo di cloruro di sodio/L). Tra gli zuccheri Fruttosio e Maltodestrine risultano essere più indicate a prevenire un aumento di insulina con conseguente ipoglicemia durante la performance. Questo è particolarmente indicato per chi pratica attività moderata o ad alta intensità di un'ora o più.

L'acqua è alla base anche della dieta mediterranea che, ancora una volta, risulta essere ideale per promuovere uno stato di salute e di benessere. Il consumo di ortaggi e frutta nelle quantità di quattro o cinque porzioni al giorno, infatti, già garantisce un discreto apporto idrico. Data l'importanza dell'acqua nell'alimentazione umana, l'Associazione Italiana Dietetica e Nutrizione Clinica nel 2011 ha proposto la piramide dell'idratazione suggerita per la popolazione italiana adulta.

E allora ricordiamoci di bere un bicchiere di acqua in più soprattutto in questo periodo dell'anno.

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