Dott.ssa Raffaella Brangi - Biologa Nutrizionista Torino
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Anemia

6/1/2021

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L’anemia è una condizione clinica associata ad una riduzione del numero totale di globuli rossi o concentrazione di emoglobina nel sangue.

La funzione principale dei globuli rossi (eritrociti) è quella di trasportare ossigeno dai polmoni ai tessuti dell’organismo scambiandolo con biossido di carbonio, che successivamente viene trasportano ai polmoni per essere escreto. Gli eritrociti rappresentano gli unici elementi dell’organismo deputati a questa funzione ed hanno una durata di vita di circa 120 giorni. La loro forma, a disco biconcavo, è necessaria per aumentare la superficie di scambio gassosa. I globuli rossi sono privi di nucleo ed il loro citoplasma (eritrocita maturo) contiene il 98% di emoglobina, il resto è costituito da enzimi necessari al metabolismo anaerobico.

I sintomi dell’anemia, come il pallore, la debolezza e l’estremo affaticamento, sono indice di mancanza di apporto di ossigeno ai tessuti.
L’anemia si manifesta con una riduzione del numero totale dei globuli rossi o della componente corpuscolata del sangue (ematocrito) o ancora con la riduzione della concentrazione di emoglobina. Si tratta di una condizione ciclica che può dipendere essenzialmente da: 
  • una ridotta produzione di eritrociti, conseguente ad una malattia ematologica primaria, ad una malattia sistemica, o a carenze nutrizionali; 
  • un aumento delle perdite (emorragia) o del turnover cellulare, con accelerata distruzione (emolisi). 
Quest’ultima, a sua volta, può dipendere da alterazioni della forma o della flessibilità dell’eritrocita (anemia falciforme), da difetti enzimatici che ne riducono la resistenza allo stress ossidativo o da anomalie dell’emoglobina che ne causano la precipitazione. 

Le anemie di interesse nutrizionale sono quelle legate alla carenza di alcune vitamine e minerali (es. vit.B12, acido folico), sono per lo più benigne ed il trattamento eziologico, volto alla correzione della situazione carenziale, è generalmente in grado di risolverle. La maggior parte di queste iniziano come anemie normocitiche e poi provocano microcitosi (riduzione del volume delle emazie) o macrocitosi (aumento del volume delle emazie).

Le anemie microcitiche, sono un gruppo di anemie in cui il volume delle emazie è inferiore alla norma (80 micron3). In questo gruppo rientrano l’anemia da carenza di ferro e quella molto rara da carenza di rame.
Il ferro è il più abbondante tra i metalli presenti nel nostro organismo ed interviene in numerose reazioni biochimiche di ossido-riduzione. Il ferro fa parte della molecola di emoglobina, lega l’ossigeno in modo reversibile ed è indispensabile per la produzione dei globuli rossi. In condizioni normali, il metabolismo del ferro è in una condizione di equilibrio e la quantità di ferro contenuto nella dieta eccede notevolmente il fabbisogno fisiologico, pertanto nella maggior parte dei casi l’anemia è imputabile a problemi di assorbimento. L’anemia da carenza di ferro è detta sideropenica. Il ferro in forma eme è assimilato meglio di quello in forma non-eme. Il ferro eme costituisce circa il 40% del ferro dei soli cibi di origine animale (es. contenuto in carne e pesce). La maggior parte del ferro alimentare (circa 60%) è tuttavia ferro non-eme (Lombardi-Boccia et al., 2004), che si trova nel cibo in forma ossidata o ferrica (Fe+++) e il cui assorbimento ne richiede la riduzione a ferro ferroso (Fe++). Gli anioni che legano il ferro, tipo EDTA, tannini, carbonati, ossalati, fosfati e farmaci antiacidi ne ostacolano l’assorbimento. Per questo motivo in caso di carenza di ferro alimenti come tè, caffè e crusca di frumento andrebbero limitati. Viceversa le sostanze acide (ascorbico, citrico, amminoacidi, carboidrati) ne facilitano l’assorbimento. Per questo agrumi e verdure a foglia verde sono particolarmente indicate. Nello stesso pasto, bisognerebbe poi evitare di introdurre alimenti che contengono elevate quantità di calcio, fosforo e ferro, poiché questi ioni entrano in competizione fra loro per l’assorbimento a livello intestinale.
Il ferro viene assorbito nel duodeno e nella porzione prossimale del digiuno. Quando le richieste di ferro aumentano per esaurimento dei depositi (rapido accrescimento, gravidanza, emorragie mestruali o patologiche), l’assorbimento del ferro a livello della mucosa intestinale può aumentare dal 10% fino al 30-40 %. Viceversa quando i depositi di ferro sono eccedenti, l’assorbimento intestinale si riduce notevolmente. Il ferro viene assorbito legato alla transferrina, quello che si trova al di fuori delle cellule che producono emoglobina viene, invece, immagazzinato sotto forma di ferritina.
L’anemia da carenza di ferro (sideropenica) può dipendere da varie cause:
  • aumento del fabbisogno: come in gravidanza, allattamento, accrescimento;
  • aumentate perdite fisiologiche: es. mestruazioni, gravidanza;
  • aumentate perdite patologiche: es. gastrite, ulcera peptica, emorroidi;
  • ridotta assunzione: bambini in accrescimento rapido o adulti che seguono diete non bilanciate (es. macrobiotiche, vegane o vegetariane);
  • ridotto assorbimento: per alterazioni gastrointestinali (diarrea cronica, malattie dell’apparato digerente, chirurgia gastrica).
Gli uomini e le donne hanno rispettivamente 50 mg/kg e 40 mg/kg di ferro depositati nei vari tessuti dell’organismo. L’emoglobina contiene dal 60 al 75% del ferro totale; 2 mg/kg si trova negli enzimi, 5 mg/kg nella mioglobina. Il resto si trova immagazzinato nella ferritina delle cellule reticoloendoteliali della milza, del fegato, dei muscoli e del midollo osseo.
Come indicato nelle tabelle di composizione degli alimenti dell’INRAN (Carnovale e Marletta, 2000), gli alimenti naturalmente più ricchi di ferro sono frattaglie, legumi secchi, carni, prodotti ittici, frutta secca ed oleosa, cereali, uova e verdure a foglia verde. 
Anemia da carenza di rame è molto rara in quanto il rame è largamente presente negli alimenti ed il suo quadro è molto simile a quello da carenza di ferro. Ciò avviene perché il rame è un componente della ceruloplasmina, proteina necessaria per mobilizzare il ferro dai depositi e consentirne l’utilizzazione. Quantità particolarmente rilevanti sono presenti in fegato e prodotti ittici oltre che in carni, uova, latte e formaggi. Discrete quantità sono contenute anche in frutta secca a guscio, cereali integrali , legumi, funghi e cacao in polvere. 
 
L’anemia macrocitica o megaloblastica è dovuta ad un’alterata sintesi del DNA, necessaria per la replicazione cellulare, e dà origine a globuli rossi immaturi e più grandi nel normale. La divisione delle emazie (e quindi la produzione di nuove cellule) è rallentata, mentre lo sviluppo citoplasmatico progredisce normalmente. Per tale motivo, nel rapido turnover dei globuli rossi, le cellule tendono ad essere magaloblastiche, cioè più grandi del  normale e immature. Le cause più frequenti di questo tipo di anemia sono la carenza di vitamina B12 e folati, ma anche l’utilizzo di alcuni farmaci o la mielodisplasia.
La vitamina B12 (Cobalamina) in natura non vine sintetizzata né da piante né da animali ma solo da alcuni microrganismi, soprattutto batteri, e in piccole quantità da alghe. Gli erbivori ricavano la vitamina B12 dai batteri che fanno parte del loro apparato gastrointestinale o dal mangime addizionato. La sintesi batterica di vitamina B12 nell’uomo non è invece sufficiente a garantire il soddisfacimento dei fabbisogni per l’organismo, pertanto deve essere necessariamente assunta con la dieta. I soggetti che seguono diete vegetariane che limitano o escludono anche cibi animali indiretti, possono sviluppare deficit di questa vitamina, che può portare nel tempo anche danni neurologici gravi. I depositi di vitamina B12 sono quantificabili in 2 mg al livello epatico ed altri 2 mg in altri organi. Poiché  il fabbisogno giornaliero è di 2,5 microgrammi, la carenza di vitamina B12 può manifestarsi anche dopo un intervallo di tempo che va dai 3 ai 6 anni, dopo che ne sia cessato l’assorbimento.
La vitamina B12 presente negli alimenti è sempre legata a proteine; nello stomaco le proteine vengono digerite dalla pepsina e la vitamina B12 viene legata alla cobalofillina (proteina R), proteina secreta dalla saliva. Nel duodeno la cobalamina viene staccata dalla cobalofillina e si combina con il Fattore Intrinseco, una glicoproteina prodotta dalle cellule parietali gastriche. Il complesso B12-Fattore Intrinseco viene poi riconosciuto da uno specifico recettore situato sugli enterociti dell’ileo e trasportato per endocitosi all’interno delle cellule. La vescicola formatasi raggiunge il polo opposto dell’enterocita e viene liberata nel sangue, legata a proteine di trasporto (transcobalamine) che la veicolano ai vari tessuti. In presenza di deficit di vitamina B12, anche i depositi tissutali di folati possono ridursi, nonostante i normali livelli plasmatici di questi ultimi.
I maggiori contenuti di vitamina B12 si trovano in carne e frattaglie, in particolare nel fegato (23-110 microgrammi/100g). Contenuti discreti sono poi presenti in molluschi, crostacei, tuorlo d’uovo e parmigiano. La biodisponibilità della vitamina B12 nelle alghe varia a seconda della specie, ma è estremamente bassa (Watanabe et al., 2002; Watanabe, 2007).
La causa più frequente di carenza di vitamina B12 non è comunque nutrizionale ma è dovuta ad anemia perniciosa, una malattia autoimmune associata ad atrofia delle cellule parietali gastriche, difetti della secrezione acida gastrica e assenza di Fattore Intrinseco. Anche resezioni o lesioni del tratto gastrointestinale possono interferire con l’assorbimento di questa vitamina (es. Terapia chirurgica dell’obesità morbo di Crohn), così come alcuni farmaci (es. inibitori di pompa ed antidiabetici orali). Altro fattore che riduce la biodisponibilità di vitamina B12 è l’età. Fino al 30% dei soggetti sopra i 50 anni  ne sono potenzialmente a rischio.
L’acido folico è immagazzinato nell’organismo in piccole quantità, le scorte si esauriscono nell’arco di 2-4 mesi, per cui i sintomi da carenza si manifestano rapidamente. I depositi di folati, nelle diverse sedi, sono di circa 5-20 mg e il suo fabbisogno aumenta in alcune condizioni fisiologiche come in gravidanza. Proprio per questo e per prevenire difetti del tubo neurale nei nascituri, in gravidanza se ne consiglia il supplemento (400 microgrammi/die). La sua forma attiva è il tedraidrofolato (THF), trasportatore di unità monocarboniosa, che interviene nella sintesi di amminoacidi, purine e pirimidine, e di conseguenza nella sintesi dei globuli rossi, del DNA, delle proteine e delle strutture del sistema nervoso.
L’acido folico è abbondante nei vegetali a foglia verde, legumi e cereali integrali ma la sua fonte principale è rappresentata da verdura e frutta fresca poiché la cottura prolungata ne riduce la presenza. Di conseguenza la carenza di acido folico nel mondo occidentale colpisce generalmente persone malnutrite, che mangiano poca verdura e frutta fresca. Contenuti particolarmente elevati di folati sono contenuti anche in fegatini di pollo e rene bovino (USDA, 2009).  Altre fonti importanti sono il lievito di birra e i cereali da prima colazione (da 160 a 560 microgrammi/100) e i legumi freschi. Tra le verdure e gli ortaggi: spinaci, asparagi, erbette, broccoli, e carciofi. Tra la frutta, le più ricche sono le arance, i kiwi e le fragole (USDA, 2009).  Nella dieta italiana, si stima che le principali fonti di assunzione di folati appartengono alle seguenti categorie alimentari: cereali e derivati (29%), verdura e ortaggi (27%), frutta (10%) (Larn, 2014).  
 
Come abbiamo visto, perdita eccessiva di sangue, distruzione eccessiva dei globuli rossi dovute a forme anomale degli eritrociti (anemia falciforme), o a produzione inadeguata di globuli rossi, come risultato di carenze alimentari (carenze di ferro, vitamina B12 o acido folico), possono portare anche a condizioni gravi di anemia. I gruppi a maggiore rischio sono i bambini sotto i due anni, le ragazze durante la pubertà, le donne in gravidanza e gli anziani. 

Riassumendo, nel trattamento dell’anemia, oltre che necessario l’utilizzo di integratori, per limitati periodi di tempo, dal punto di vista alimentare sono consigliate verdure a foglia verde che contengono, oltre a ferro ed acido folico, clorofilla, che assorbita dall’intestino fornisce gli elementi strutturali dell’emoglobina. Sono ricchi di ferro anche fagioli secchi, melassa, carne di manzo, di maiale, di cavallo, albicocche secche, uvetta e altra frutta essiccata, mandorle, mango e molluschi. Il fegato di vitello ed il lievito di birra sono anche spesso raccomandati in caso di anemia, perché ricchi non solo di ferro, ma anche di vitamine del gruppo B, comprese la vitamina B12 e l’acido folico. Alghe e cibi fermentati come salsa di soia, miso e tempeh, molto utilizzati nella cucina macrobiotica e vegetariana contengono invece solo piccole fonti di vitamina B12 e in forma non del tutto utilizzabile dal nostro organismo. 

Come sempre si consiglia perciò una dieta varia ed equilibrata, anche su base vegetale, che, se ben strutturata, rappresenta lo strumento utile per prevenire nel tempo tutte le forme di anemia sopraindicate, oltre a concorrere al complessivo benessere psicofisico del nostro organismo.

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Radicali liberi ed antiossidanti

10/5/2020

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I radicali liberi detti anche ROS (Reacting Oxigen Species) sono molecole instabili e fortemente reattive, prodotte dal nostro organismo a seguito dei processi fisiologici che avvengono nelle cellule. Durante la respirazione cellulare, alcuni elettroni sfuggono dalla catena di trasporto mitocondriale e formano ione superossido (O2-) e perossido di idrogeno (H2O2). In presenza di metalli di transizione liberi (soprattutto ferro e rame), questi danno origine al radicale ossidrile (OH-) molto tossico e responsabile della perossidazione lipidica.

Mancando di un elettrone nel loro orbitale più esterno, i radicali liberi ricercano stabilità da strutture molecolari vicine come lipidi, proteine e acidi nucleici (DNA e RNA), innescando così delle reazioni di ossidazione a catena. Il nostro organismo mette in atto meccanismi di difesa, in grado di cedere elettroni e contrastare queste reazioni di ossidazione a catena: il Glutatione o GSH è un tripeptide che per la particolare struttura molecolare ha un’elevata capacità di ossidarsi e ridursi, proteggendo così le proteine e gli altri composti ossidabili dall’azione nociva dei radicali liberi; la superossido dismutasi converte l’anione superossido in perossido d’idrogeno (acqua ossigenata) che in presenza di ferro libera il radicale ossidrile; infine la catalasi converte il perossido d’idrogeno in acqua e ossigeno.

Questi meccanismi apparentemente così complessi fanno parte del corredo enzimatico e dell’attività antiossidante messa in atto dalle nostre cellule a difesa del nostro organismo. Quando però la produzione di radicali liberi è eccessiva, il nostro organismo non riesce a contrastare l’azione nociva dei radicali liberi e si va incontro ad una condizione di stress ossidativo, con conseguenti danni cellulari importanti. Alcuni fattori esogeni, poi, come fumo di sigaretta, alcool, inquinamento e radiazioni UV, possono favorirne la formazione. Attraverso uno stile di vita sano e una corretta alimentazione è possibile invece contrastare lo stress ossidativo, aumentando il pool di antiossidanti a difesa del nostro organismo.

Gli antiossidanti sono molecole protettive che rallentano o prevengono l’ossidazione di altre sostanze, trasferendo elettroni e agendo da riducenti. Queste molecole sono presenti in molti alimenti, soprattutto di origine vegetale:
  • Vit. E presente negli oli vegetali, burro e latticini, cereali integrali
  • Vit. A presente in olio di fegato di merluzzo, carni, uova, latte, formaggi, burro
  • Carotenoidi presenti in ortaggi di colore giallo arancione (carote, zucche, peperoni) e frutti (albicocche, meloni, pesche)
  • Vit. C presente in agrumi, ananas, kiwi, fragole, alcune verdure e ortaggi freschi (lattuga, radicchio, spinaci, broccoli, cavolfiore, pomodori, peperoni)
  • Selenio presente in cereali, noci, anacardi, funghi
  • Zinco presente in lievito, latte e carne
  • Coenzima Q10 presente in carne, pesce grasso, cereali, oli vegetali, germe di grano, soia
  • Polifenoli: presenti in frutti rossi, succo d’uva, cavoli, prugne, kiwi e pompelmo rosa


Solo un consumo sinergico e variegato di questi cibi riesce però ad avere un’efficace un’azione protettiva sul nostro organismo.
​Consumare 4 o 5 porzioni tra frutta e verdura, variare le scelte alimentari seguendo la stagionalità dei prodotti, prediligere il consumo di verdure crude o cotte al vapore e possibilmente biologiche, ci aiuterà a non disperdere questi preziosi alleati e magari ad invecchiare più lentamente.

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Intolleranza al lattosio

26/8/2019

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L’intolleranza al lattosio è un deficit enzimatico che racchiude l’insieme dei sintomi che insorgono a causa della carenza dell’enzima lattasi (beta-D-galattosidasi).

Il lattosio è il principale zucchero del latte prodotto dai mammiferi ed è un disaccaride composto da due monomeri D-glucosio e    D galattosio uniti da un legame beta (1-4) glicosidico. L’enzima lattasi ha il compito di scindere questo legame e idrolizzare il lattosio nei due zuccheri semplici glucosio e galattosio, monosaccaridi che solo in questo modo possono essere assorbiti al livello intestinale.

L’uomo ha iniziato ad introdurre nella sua alimentazione il latte vaccino a partire dalla “rivoluzione neolitica” con l’inizio dell’agricoltura e quindi circa 10.000 anni fa. In questo periodo l’uomo ha abbandonato la vita nomade basata prevalentemente sulla caccia e sulla raccolta, per formare con altri individui insediamenti stabili basati su pratiche agricole. E’ molto probabile che fino a quel momento l’uomo fosse geneticamente privo dell’enzima lattasi. Con l’inserimento del latte vaccino nell’alimentazione umana e a seguito di una mutazione genetica, alcuni individui si sono dotati di lattasi ed hanno acquisito la capacità di digerire bene il latte vaccino.

L’intolleranza al lattosio è molto comune nella popolazione mondiale e non vi sono significative differenze di incidenza fra i due sessi. Studi condotti su vasti campioni di popolazione in diverse zone del pianeta hanno evidenziato una maggiore frequenza di deficit da lattasi in età adulta nelle aree geografiche a minor consumo di latte e, parallelamente, una minore incidenza dell’intolleranza tra le popolazioni ove il consumo di latte è maggiore e prosegue anche oltre l’età infantile. Negli Stati Uniti ne è affetto circa il 22% della popolazione. In nord Europa la prevalenza è molto bassa (solo il 5% degli individui). Nell’Europa centrale è circa il 30 %, mentre nell’Europa del sud e nella fascia equatoriale si registra la prevalenza maggiore (circa il 70%). Tali differenze geografiche sono dovute molto probabilmente anche al fatto che il flusso migratorio che ha portato le popolazioni a spostarsi dall’Africa all’Europa, dove la pastorizia era più diffusa, è avvenuto in un periodo antecedente a quello della mutazione enzimatica.

I sintomi dovuti alla intolleranza al lattosio sono di natura gastrointestinale: gonfiore e tensione addominale, flatulenza, crampi e dolori addominali diffusi sono i sintomi più frequenti.
Il gene della lattasi è situato sul cromosoma 2, dagli studi condotti non sono state evidenziate significative differenze nel DNA di soggetti che presentano diversi livelli di attività dell’enzima. Differenze significative sono state invece riscontrate nella regione di regolazione dell’attività del gene responsabile della biosintesi della lattasi e quindi in varianti alleliche in grado di rendere più o meno efficiente la sua trascrizione in RNA messaggero. Altri studi dimostrano poi che esistono vari livelli di modulazione dell’ espressione dell’attività dell’enzima anche nelle diverse età.
E’ stato visto infatti che, l’attività della lattasi aumenta a partire dal terzo trimestre di vita fetale per diventare massima al termine della gravidanza. Questo è il motivo per cui neonati pretermine presentano attività lattasica meno efficiente. Il deficit di lattasi nell’adulto sembra insorgere nella gran parte dei casi quindi come conseguenza della fisiologica iporegolazione dell’attività enzimatica. Diverso il discorso è invece per quella che viene indicata come carenza congenita primaria di lattasi (CLD) che a differenza della più frequente intolleranza al lattosio rappresenta un disordine genetico autosomico recessivo molto raro e che comporta la totale assenza di espressione dell’enzima già dall’età neonatale. Questo si manifesta nel neonato con forte diarrea, disidratazione anche grave associata a perdita di peso.

I tempi con cui i sintomi dell’intolleranza al lattosio insorgono variano da una a poche ore dall’ingestione di alimenti contenenti lo zucchero. Il disaccaride non idrolizzato non può essere assorbito a livello del tenue e così il lattosio non digerito passa lo sfintere ileo-cecale e giunge nel colon. A contatto con la flora batterica il lattosio viene sottoposto ad un processo di fermentazione i cui intermedi sono acidi grassi a catena corta, idrogeno, anidride carbonica e metano, responsabili dei disturbi gastrointestinali. Essendo poi una sostanza osmoticamente attiva, il lattosio richiama nel colon acqua impedendo la formazione di feci solide.

In questi casi è opportuno eliminare dalla propria dieta cibi contenenti lattosio per un certo periodo di tempo e reinserirli successivamente in modo graduale verificandone la dose di tolleranza. Non esiste una dose-soglia valida per tutti, ma una tolleranza allo zucchero del tutto soggettiva. L’entità del deficit produttivo si manifesta infatti quando la quantità di lattosio assunta supera la capacità metabolica dell’organismo. Lo yogurt ad esempio presenta un contenuto di lattosio molto ridotto, poiché quest’ultimo è in gran parte utilizzato come substrato dai lattobacilli fermentativi, e quindi spesso ben tollerato.

Tra gli alimenti che contengono lattosio ricordiamo: latte intero, scremato o parzialmente scremato; latte in polvere o condensato; panna; ricotta, latticini e formaggi spalmabili; gelati e bevande a base di latte come frappè; in minori quantità yogurt, formaggi stagionati, alcuni salumi, alimenti contenenti siero di latte, salse e sughi pronti, cereali da colazione, merendine, budini, pane al latte e altri prodotti da forno. E’ consentito invece il consumo se ben tollerato di latte e formaggi speciali ad alta digeribilità, pasta e poi riso e tutti gli altri cereali, verdura, frutta, carne, pesce, pane e prodotti da forno che ne sono privi, dolci e creme senza latte, tutte le bevande vegetali.

Nel caso ci sia la necessità di eliminare il lattosio dalla propria dieta il suggerimento è però di considerare l’insorgere nel tempo di eventuali carenze nutrizionali di calcio, vit D e vit B12, di cui il latte e i suoi derivati sono ricchi. Pertanto non è sufficiente eliminare dalla propria dieta gli alimenti che lo contengono, ma ricercare e consumare con regolarità quelli che più si adattano alle esigenze personali e che rappresentano fonti alternative di questi nutrienti (es. bevande vegetali addizionate, se ben tollerati alcuni formaggi stagionati, carni, uova e frutta secca, acqua con un buon contenuto di calcio).




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La cellulite

21/6/2019

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La cellulite tecnicamente chiamata panniculopatia edemato-fibro-sclerotica (Pefs) è un fastidioso inestetismo cutaneo, causato da una degenerazione degli adipociti o per meglio dire da un ristagno di liquidi lì dove si ha un'infiammazione del tessuto adiposo. Le parti del corpo interessate sono: pancia, cosce, fianchi e glutei e gambe ma anche area del ginocchio e braccia soprattutto nella parte interna.
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Ci sono diversi tipi di cellulite:
- cellulite edematosa in cui l'epidermide presenta un aspetto gonfio e spugnoso. La causa è una cattiva circolazione venosa con formazione di edema a livello dell'ipoderma, riconoscibile anche attraverso la palpazione. Pressando con un dito la zona interessata, infatti, si ha la comparsa di un incavo persistente nella pelle detto foeva.
- cellulite fibrosa spesso associata alla forma edematosa è dovuta ad una degenerazione del tessuto connettivo con un accumulo di adiposità localizzate, che conferiscono alla pelle il classico effetto a buccia d'arancia.
- cellulite sclerotica il tessuto connettivo diventa più spesso e i noduli si fanno più grossi e dolenti.
- cellulite compatta e molle nelle cui categorie possono rientrare tutte le forme descritte. La cellulite compatta in particolare colpisce anche le donne magre, in buona forma fisica e con una muscolatura tonica ma poco mobile. Si localizza prevalentemente su cosce e glutei. E' tra le forme più comuni di cellulite dovuta quasi sempre ad una cattiva circolazione venosa e linfatica e spesso associata a evidenti smagliature dovute ad un'alterazione del tessuto elastico. La cellulite molle colpisce invece generalmente donne di età superiore ai 50 anni, in evidente ipotonia e quindi sedentarie e soggette al cosiddetto effetto yo-yo ovvero ad una variazione ciclica del peso. La cellulite molle è caratterizzata da infiltrati mobili e noduli sclerotizzati non compatti e che si muovono come un tutt'uno al variare della posizione.


A tavola è necessario applicare delle semplici regole:

  • Bere almeno 1,5-2 litri di acqua al giorno
 
  • Ridurre l'assunzione di sale, evitando ad esempio snack dolci e prodotti da forno salati, cibi in scatola o conservati. Questi trattengono liquidi e facilitano la formazione di edemi. Per insaporire le pietanze preferire l'utilizzo di spezie ed erbe aromatiche (es. prezzemolo e cipolla utili ad eliminare i prodotti di scarto del metabolismo), non avere la saliera a tavola e salare l'acqua di cottura solo alla fine per ridurre l'assorbimento del sale da parte della pasta
 
  • Evitare l'assunzione di alcol e bevande zuccherate
 
  • Ridurre l'assunzione cibi grassi o raffinati, di carne rossa, formaggi e affettati, privilegiando alimenti vegetali come cereali integrali. Le fibre presenti in questi alimenti aiuteranno anche a favorire il senso di sazietà e a ridurre il sovrappeso. Tra le bevande della prima colazione il latte ha un ruolo da protagonista in quanto non solo è ricco di calcio e vitamina A, ma contiene anche aminoacidi che stimolano la produzione di collagene ed elastina indispensabili per la freschezza cutanea.
 
  • Consumare giornalmente 4 o 5 porzioni di frutta e verdura fresca consente di mantenere idratato l'organismo e nel contempo arricchire la dieta di fibre e di potassio, utili ad abbassare l'apporto calorico giornaliero e favorire l'eliminazione dei ristagni dai tessuti. La vitamina C in essa presente è uno dei più potenti antiossidanti presenti in natura ed ha un' azione vasotonica, utile a prevenire la fragilità capillare. La vitamina C è inoltre preziosa alleata nel combattere l'azione dei radicali liberi e l'infiammazione del tessuto adiposo. I frutti rossi in particolare come fragole, more, ribes e lamponi sono buone fonti di bioflavonoidi utili a migliorare la circolazione del sangue. Anche l'ananas è un potente alleato nel combattere la cellulite in quanto contiene bromelina, un enzima antiedemigeno ed antinfiammatorio.
 
  • Inserire nella dieta una o due volte a settimana il pesce azzurro ricco di Omega-3. Ha un effetto antinfiammatorio sugli adipociti riducendo il ristagno di liquidi e migliorando la tonicità dei tessuti 
 
  • Consumare giornalmente, ma senza eccedere per l'alto contenuto calorico, frutta secca ed olio extravergine di oliva, fonti di grassi "buoni" e di vitamina E che contribuiscono anche a donare vigore e lucentezza alla pelle.
 
  • Sorseggiare durante il giorno tè verde ricco di polifenoli può essere utile nel combatte la ritenzione e nel ridurre l'assorbimento di glucidi e lipidi. Anche il caffè, infine, se preso con moderazione, può contribuire a tonificare i vasi sanguigni aumentando la velocità del flusso ematico, favorendo così una migliore ossigenazione dei tessuti.

In breve sintesi, per concludere, le armi indispensabili per combattere contro questo fastidioso inestetismo sono: seguire una sana e corretta alimentazione, evitare fumo e alcol, praticare sport regolarmente e bere tanta acqua.

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Alimentazione e depressione

15/1/2019

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La depressione è un disturbo psichico associato alla presenza di umore triste e irritabile che se non trattato in tempo può portare anche a modificazioni fisiche, fisiologiche o comportamentali gravi. Ha un'incidenza che si stima intorno al 10-15% nella popolazione adulta, con una maggiore frequenza nelle donne.

La depressione dal punto di vista neurobiologico è associata alla carenza di alcuni neurotrasmettitori (Serotonina, Dopamina e Norepinefrina), che hanno un ruolo determinante sul tono e l'umore.
I più comuni farmaci antidepressivi attualmente in uso, infatti, agiscono proprio sull'aumento della biodisponibilità di questi neurotrasmettitori. Alcuni inibendo la ricaptazione e quindi aumentando la presenza degli stessi, altri invece inibendo le monoamminossidasi ovvero gli enzimi che intervengono nella degradazione di queste molecole.

Recentemente è stata avanzata anche un'ipotesi infiammatoria (Krishandas and Cavanagh, 2012).
E' stato dimostrato, infatti, che le citochine pro-infiammatorie sono determinanti nella modulazione del tono dell'umore, attraverso tre diversi meccanismi:
  • agendo sui neurotrasmettitori,
  • riducendo la neurogenesi,
  • attivando un enzima specifico che depleta di serotonina il cervello "portandolo" così nel tempo ad un verso è proprio stato depressivo.

E' stato osservato, infatti, che i pazienti in uno stadio depressivo avanzato presentano elevati livelli di citochine infiammatorie (proteina C reattiva, TNF alfa e interleuchina 6). E' stato visto inoltre che, patologie infiammatorie derivanti ad esempio da stress cronico, componenti socio-comportamentali alterate e trattamenti oncologici presentano un maggior rischio di sviluppare questo disturbo. Sembra infatti che, in questi casi, l'infiammazione agisca non solo come fattore "precipitante" nei soggetti predisposti ma anche come fattore che tende a "perpetuare" la depressione impedendone qualunque forma di recupero.
Molto spesso allora si instaura con il cibo un meccanismo compensatorio. Ad esempio, comunemente i pazienti depressi aumentano la loro preferenza per i carboidrati, in quanto questi sono correlati a meccanismi serotoninergici, con effetti migliorativi sul tono dell'umore. Solo apparentemente però, e a breve termine. Infatti l'assunzione incontrollata di carboidrati e soprattutto di zuccheri semplici, con ricorrenti "abbuffate", porta ad un peggioramento nel tempo e a lungo termine dello stato infiammatorio e dell'umore, oltre che a gravi conseguenze sulla salute in generale. E' evidente che il paziente depresso tende a fare scelte poco salutari e non controllate nei confronti del cibo (Kiecolt-Glaser, 2010).

E' il cibo stesso però che, associato a regolare attività fisica, può essere la soluzione in questi casi. Non a caso si parla di "effetto antidepressivo del cibo". Scegliere in modo consapevole cosa mangiare ed associare un regolare esercizio fisico diminuisce non solo la predisposizione alle principali patologie cardiovascolari, ma migliora anche l'umore.

Vediamo allora come il cibo può fungere da antidepressivo migliorando la biodisponibilità dei neurotrasmettitori , riducendo nel contempo l'infiammazione.

Alimenti come:
  • Latte, formaggi magri, uova, agnello e sardine sono ricchi di triptofano, precursore della serotonina.
  • Avena, grano saraceno, avocado, cozze, aragosta e gamberoni sono ricchi di vit B6, utile anche questa per la sintesi di serotonina.
  • Legumi e verdure a foglia verde sono ricche di acido folico che favorisce la sintesi di dopamina.
  • Alimenti ricchi di acidi grassi polinsaturi come pesce azzurro, semi e frutta secca proteggono i neuroni dal danno ossidativo, riducendo i livelli di citochine pro-infiammatorie.
  • Antiossidanti presenti in frutta e verdura ed in particolare l'epigallocatechina-3- gallato, presente nel tè verde, è stato ampiamente dimostrato essere in grado di ridurre lo stress ossidativo, l'infiammazione e favorire i fattori di crescita neuronali. Alcuni studi hanno dimostrato anche la capacità dell'epigallocatechina-3-gallato di migliorare le funzioni cognitive legate all'attenzione e alla memoria anche in età avanzata.
  • La curcumina, infine, presente nella curcuma (spezia di colore giallo simile allo zafferano - di cui abbiamo parlato in un precedente articolo), oltre a possedere proprietà anti-infiammatorie ed anti-ossidanti, può alleviare i sintomi della depressione aumentando la neurogenesi nell'ippocampo e nella corteccia frontale del cervello. E' stato dimostrato che la curcumina migliora quindi la funzionalità neuronale ma previene anche dalla degradazione neuronale. Essendo una molecola lipofila è altamente biodisponibile perché in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e assolvere la sua funzione neuroprotettiva.

Seguiamo, quindi, l’antico principio “Mens sana in corpore sano”; è possibile, con una corretta educazione alimentare, mantenere il nostro benessere fisico e mentale.

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Sindrome dell'Intestino Irritabile

10/9/2018

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La sindrome dell'intestino irritabile (Irritable Bowel Syndrome, IBS) è una problematica abbastanza frequente e caratterizzata da alterazioni di tipo funzionale dell'intestino, in assenza di lesioni anatomiche specifiche.

Pur essendo del tutto benigna, la IBS è però in grado di influenzare negativamente la qualità della vita con un'incidenza del 20-30% sulla popolazione e con un'età media tra i 30 e 40 anni (periodo di vita in cui solitamente l'individuo è al massimo dell'attività lavorativa e dello stress).

I disturbi associati all'IBS sono correlati ad un'aumentata sensibilità intestinale con fasi alterne dell'alvo (diarrea e stipsi) spesso associati anche a gonfiori addominali, flatulenza,  sensazione di pesantezza dopo i pasti, addome dolorante, e in alcuni casi anche sintomi extraintestinali ginecologici, della minzione, mal di testa e letargia.

In Gastroenterologia una prima definizione della sindrome dell'IBS fu data data nel 1962 da Chaudhary e Truelove, più tardi  incorporata nei Criteri di Manning (1978). Oggi i criteri di Roma che hanno avuto diverse versioni, l'ultima la "Roma IV" pubblicata nel 2016, sono quelli più accreditati ed utilizzati per la diagnosi.

Secondo i criteri di Roma IV si parla di IBS quando si ha dolore addominale ricorrente per almeno 1 giorno a settimana negli ultimi tre mesi, associato a due o più dei seguenti aspetti che sono correlati:
1. alla defecazione
2. ad un cambiamento della frequenza della defecazione
3. ad un cambiamento della forma (aspetto) delle feci
 
Si può dire che esistono tre forme di IBS:
- prevalente stipsi con dolore addominale cronico ( numero di evacuazioni inferiore alle tre volte a settimana, feci dure o caprine, evacuazione dolorosa o incompleta
- prevalente diarrea senza dolore (scariche giornaliere superiori a tre e feci non formate)
- alternanza di stipsi e diarrea

Un aspetto ancora da chiarire oggi è l'eziologia del disturbo. Le cause infatti sono multifattoriali anche se nei soggetti con IBS vi è in comune un'alterazione della sensibilità intestinale, dovuta presumibilmente ad un'alterazione della microflora intestinale causata spesso da abitudini alimentari non corrette e da fattori genetici, stress emotivi, alcol e fumo.

Sebbene non esista una cura specifica, se non strettamente mirata a migliorare il singolo sintomo che si presenta (diarrea, stipsi, gonfiore, distensione addominale), l'approccio dietetico  ed il corretto stile di vita rappresentano al momento il miglior intervento terapeutico. Intervento che deve essere stabilito soprattutto attraverso l'anamnesi del paziente.  Particolare attenzione deve essere posta al contenuto calorico degli alimenti ed in particolare alla qualità dei grassi ingeriti, in caso di deficit enzimatici alla qualità e quantità degli alimenti contenenti lattosio, alla valutazione dell'introito di fibre e fruttosio nella dieta, non tralasciando poi l'importanza degli aspetti comportamentali legati alla corretta masticazione dei cibi, al corretto introito di liquidi e alla regolare attività fisica.
 
In caso di diarrea è necessario anzitutto intervenire reintegrando i liquidi persi (bevendo 1,5L-2L di acqua al giorno non gassata, a piccoli sorsi e a temperatura ambiente) e seguendo per qualche giorno una "dieta in bianco" eliminando:
-  dolci, zuccheri semplici, caffè e bevande alcoliche,
- latte e latticini, preferendo quelli stagionati come il grana o il parmigiano, 
- alimenti ricchi di fibre (verdure crude, frutta con buccia e cereali integrali)
- verdure e alimenti produttori di gas come cavolfiori, broccoli, rape e legumi
-  caramelle o gomme da masticare contenenti sorbitolo o xilitolo (perchè hanno un blando effetto lassativo).

E' necessario, inoltre, reintegrare la perdita di sali minerali (sodio e potassio) utilizzando sale da cucina, brodi vegetali, banane e polpa di mele che hanno anche un blando effetto astringente e associare fermenti lattici per un  rapido ripristino della microflora intestinale.

In caso di stipsi va gradualmente aumentata l'assunzione di fibra (cereali integrali, frutta mangiata con buccia, verdure e legumi) associando una corretta assunzione di liquidi (1,5-2l di acqua al giorno). Può essere utile, ad esempio, bere già 1 bicchiere di acqua tiepida al risveglio mattutino e associare infusi ad effetto carminativo come melissa, finocchio, anice, camomilla. Le fibre insolubili aumentano la massa fecale favorendo la peristalsi intestinale, quelle solubili creano delle mucillagini formando materiale viscoso che rende le feci più morbide, lubrificate e voluminose.

Un buon approccio riabilitativo in questi casi è il monitoraggio costante del paziente a cui si associa in base al caso uno specifico un trattamento dietetico mirato per qualche mese fino ad ottenere la riduzione della frequenza, della durata ed dell'intensità dei sintomi.

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Le malattie cardiovascolari

26/2/2018

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Con il termine malattie cardiovascolari si intendono diverse situazioni cliniche che hanno in comune come unica causa, un'alterazione della parete arteriosa.
L'arteriosclerosi descrive l'ispessimento, l'indurimento e la perdita di elasticità della parete vasale delle arterie. L'aterosclerosi  è un tipo particolare di arteriosclerosi che colpisce le grandi e medie arterie. Quest'ultima caratterizzata dalla formazione di placche fibroadipose che si formano nell'intima arteriosa (ateromi) soprattutto nell'aorta, nella arterie coronarie e nelle arterie cerebrali e che possono produrre una stenosi del lume vascolare. Nella pratica i due termini vengono utilizzati indistintamente.

La formazione della placca ateromasica, che interessa le pareti dei vasi arteriosi e che rappresenta la lesione caratteristica di questa malattia, inizia con l'ingresso di lipidi, soprattutto colesterolo LDL, nella tonaca interna (intima) dell'arteria. Questo tipo di alterazione, che si può osservare nei soggetti a rischio già durante l'infanzia, va  incontro ad un lento processo che porta alla placca vera e propria. Nel tempo, l'accrescimento della placca determina la protusione del lume vasale, fatto che compromette l'irrorazione ad organi serviti da quell'arteria, oppure la trombosi/tromboembolizzazione della placca che si verifica a seguito della rottura del cappuccio fibroso che la riveste, e che porta ad una repentina ostruzione del vaso arterioso sede della placca ( o di vasi arteriosi più a valle nel caso di embolizzazione).

Le cause di tutto ciò possono essere genetiche ma soprattutto ambientali (legate cioè allo stile di vita). Per questo motivo, mettere in atto tutte le misure di prevenzione rappresenta lo strumento efficace per ridurne il rischio. Nel trattamento delle patologie cardiovascolari, l'intervento nutrizionale e la modificazione dello stile di vita o TLC (Therapeutic Lifestyle Chanching) sono considerati aspetti propriamente terapeutici. Se infatti alcuni fattori di rischio non sono modificabili in quanto legati al sesso, alla predisposizione genetica e alla familiarità, altri fattori così detti modificabili possono essere ridotti intervenendo preventivamente e a lungo termine con una corretta alimentazione, con un'attività fisica costante e con la completa eliminazione del fumo.

Studi epidemiologici condotti negli ultimi decenni sulla popolazione occidentale dimostrano che dal dopoguerra ad oggi, e già dopo i primi quindici anni, è aumentata in maniera esponenziale l'incidenza di complicanze cardiovascolari. Sovrappeso e adiposità addominale, così come altre alterazioni metaboliche (ipertensione, resistenza all'insulina, ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia) sono infatti legati agli eccessi alimentari che caratterizzano l'epoca moderna. Al contrario con apporti calorici adeguati e associando il regolare consumo di certi alimenti, prevalentemente di origine vegetale,  può essere ridotto il rischio cardiovascolare.

Molti studi confermano, infatti, che una dieta su base vegetale e caratterizzata da un consumo costante di acidi grassi polinsaturi (contenuti in abbondanza nella frutta secca, nei semi oleaginosi e nel pesce azzurro) a differenza di quelli saturi o trans (contenuti nelle carni, uova, formaggi e in tutti junk food) riduce il rischio di malattia coronarica. Diversi studi osservazionali e trials dietetici (Journal of Human Nutrition and Dietetics, Cardiology journal) sono concordi nel dire che l'ingestione di acidi grassi polinsaturi a dispetto di quelli saturi, produce una riduzione importante del colestrolo-LDL .
In particolare l'acido alfa-linolenico (omega-3),  integrazione tra l'altro utilizzata nella terapia in prevenzione secondaria, ha una potenziale azione antitrombotica, antinfiammatoria e di miglioramento della funzione endoteliale (Kris-Etheterton, 2002).
Alimenti ricchi di folati e di antiossidanti come polifenoli, vitamina E e carotenoidi (presenti in abbondanza nella verdura verde e giallo-arancione, nella frutta, negli oli vegetali e nella frutta secca) così come il consumo di  isoflavoni della soia, soprattutto in donne in post-menopausa, sembrerebbero avere poi un ruolo determinante sulla suscettibilità all'ossidazione delle lipoproteine LDL e sulla comparsa dell'ateroma.
Anche la fibra alimentare (Studio CARDIA-The Coronary Artery Risk Development in Young Adults) svolge un ruolo importante nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. In particolare è stato visto che, l'ingestione di fibra, senza tener conto del tipo, è correlata inversamente con la pressione arteriosa, il peso, l'indice vita-fianchi, e le concentrazioni di trigliceridi, insulina e fibrinogeno.
Nel Nurse's Health Study al follow-up a 10 anni si è osservata una riduzione del 37% del rischio di malattia cardiovascolare per ogni incremento di 5 g al giorno di fibra alimentare. E' possibile però affermare che, mentre la fibra insolubile (contenuta nei cereali integrali) si dimostra utile ma non determinante nella riduzione del colesterolo LDL, la fibra solubile (contenuta ad esempio nei legumi) riduce significativamente le concentrazioni di colesterolo LDL del 5-10 % se introdotta regolarmente con la dieta. La fibra solubile, infatti, interrompe la circolazione enteroepatica e di conseguenza l'assorbimento dei lipidi e del colesterolo contenuto negli alimenti.
​
Alla luce di tutto questo e considerando il fatto che, ogni giorno, acquisisce sempre più rilevanza l'associazione tra modello di "dieta occidentale" e rischio di malattie cardiovascolari, l'adeguato consumo e la preferenza di alimenti di origine vegetale come frutta, verdura, cereali integrali, ma anche di frutta secca e di alcuni oli vegetali, è alla base del nuovo approccio dietetico proposto dalla letteratura scientifica e dalle recenti linee guida internazionali, sia come semplice fattore preventivo in caso di normopeso, sia come trattamento dietetico nella riduzione del peso corporeo.

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Il benessere cutaneo - alimentazione e stile di vita

21/1/2018

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Con il passare degli anni, la pelle subisce modificazioni a livello cellulare e strutturale. Si parla di crono-invecchiamento e si traduce in un lento cambiamento dell'aspetto esteriore. 
Il tessuto cutaneo, più di ogni altro organo, essendo maggiormente esposto a fattori esterni (radiazioni solari, sbalzi di temperatura, inquinamento, ecc.) subisce questo graduale processo. 

Se è vero che i modi e i tempi d'invecchiamento dell'organismo, pelle inclusa, dipendono dal nostro patrimonio genetico, alcuni fattori possono infatti accelerarlo:   

  • le radiazioni UV (sole e lampade artificiali) possono causare nel tempo secchezza cutanea , depigmentazione della pelle, cheratosi, macchie e lentiggini;
 
  • lo smog ed il fumo di sigaretta sono responsabili del così detto smoker's face con conseguente perdita di elasticità dell'epidermide, comparsa di rughe e segni evidenti sulla pelle;
 
  • lo stress è responsabile di forte irritabilità, tendenza all'arrossamento, colorito spento, probabile comparsa di eruzioni cutanee; 
 
  • la menopausa che provoca la riduzione della produzione di estrogeni (ormoni che influenzano la rigenerazione cellulare) e determina una diminuzione della densità cutanea con un assottigliamento dell'epidermide; 
 
  • la disidratazione che determina un'immediata secchezza cutanea, con possibili screpolature e la comune sensazione di pelle ruvida al tatto;   
 
  • i repentini cambiamenti climatici sono spesso responsabili di una profonda disidratazione; 
 
  • un regime alimentare sbilanciato con poca frutta e verdura che, associato ad un'eccessiva assunzione di alcolici e/o farmaci, innesca processi ossidativi con formazione di radicali liberi e conseguente danno delle strutture cellulari;

In particolare, poi, alcune sostanze contenute negli alimenti sono capaci di influenzare in modo profondo il DNA, di interferire con le difese immunitarie e gli equilibri ormonali, di contrastare la formazione dei radicali liberi e l'invecchiamento cellulare.
Tra queste
: 
  • la vitamina A presente nei grassi animali (es.tuorlo d'uovo, burro, olio di fegato di merluzzo) o sotto forma di beta-carotene nella frutta e nella verdura gialla e arancione (es. carote, albicocche, zucca, melone, patate dolci, pomodori secchi) e negli ortaggi di colore  verde scuro (es. spinaci, rucola e broccoli);

  • la vitamina E presente in oli vegetali, frutta secca (es. mandorle e noci), semi, ortaggi a foglia verde, cereali integrali, germe di grano, asparagi avocado, fegato, uova; 

  • la vitamina C presente in molti tipi di verdura e frutta fresca (es. agrumi, kiwi, fragole, peperoni, pomodori, cavolfiori, broccoli, verdure a foglia verde);
​ 
  • le vitamine del gruppo B in particolare la B5 o acido pantotenico fondamentale per l'attività delle cellule e la rigenerazione dei tessuti (presente ad esempio in carni, uova, funghi, crostacei, lievito di birra) e la B12 che dà energia (come fonte affidabile presente solo nei cibi di origine animale);
​ 
  • il selenio (presente nel lievito, germe di grano, riso e altri cereali integrali..) ed il coenzima Q10 (presente in piccole quantità in sardine, sgombri, soia, frutti oleosi e germe di grano);
​ 
  • gli acidi grassi essenziali come omega-3 e omega-6 determinanti nel garantire l'elasticità del collagene e controllare i processi infiammatori (presenti in frutta secca, semi e oli di origine vegetale, pesce azzurro come aringhe, alici, salmone, sgombro..);
​  
  • i polifenoli contenuti nelle fonti vegetali (frutta e verdura fresca) attivi nella ricostruzione del collagene e nel mantenimento di una pelle giovane e radiosa. 

L'età ha quindi il suo peso, ma agire d'anticipo con uno stile di vita sano è possibile. Se è vero che "siamo ciò che mangiamo" (Ludwig Feuerbach 1804-1872), sono soprattutto i cibi che portiamo in tavola a determinare la bellezza della nostra pelle. 
Seguire una dieta equilibrata, ricca di antiossidanti e povera di sodio, bere molta acqua, mantenersi in esercizio fisico, evitare fumo ed alcol, evitare lunghe esposizioni al sole e dormire a sufficienza sono tutti interventi utili a contrastare i lenti processi legati all'invecchiamento cutaneo.  ​

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Alzheimer - Ruolo dell'alimentazione

26/11/2017

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L'Alzheimer (MA), secondo la definizione data dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è una forma di demenza degenerativa primaria corticale ad eziologia multifattoriale che compromette in modo graduale ed irreversibile le funzioni cognitive, comportamentali e funzionali dell'individuo che ne è affetto.

In termini di costi sulla spesa  sanitaria la MA si classifica al terzo posto, dopo le neoplasie e le malattie cardiovascolari, con conseguenze molto importanti che si ripercuotono in termini economici, assistenziali e psicologici anche sulle famiglie che se ne fanno carico.

Negli Stati Uniti il numero di persone affette da MA è stimato in  circa 4 milioni, mentre in Italia le cifre sono comprese tra 300.000 e 600.00 secondo le diverse stime; si prevede comunque che queste cifre possano raddoppiare entro il 2020.

Tra i numerosi fattori non modificabili che concorrono alla malattia (es. genetica ed età),  ve ne sono altri così detti ambientali che sono modificabili in quanto legati allo stile di vita e all'alimentazione. Questi fattori possono essere presi in considerazione come preventivi nei confronti della malattia.

Se andiamo ad analizzare:
  • l'età è il maggiore fattore di rischio non modificabile. Come è noto, il numero di soggetti che ne vengono colpiti aumenta con l'avanzare dell'età.  Si stima un'incidenza pari all'1,2 per 1000 persone/anno nella fascia di età 65-69 anni e 63,5 nella popolazione con più di 90 anni.
  • la familiarità altro fattore di rischio non modificabile, si ritiene che può far aumentare il rischio di insorgenza della malattia da 3 a 7 volte in base al grado di parentela.
  • la genetica estremamente complessa per la MA, in quanto nella maggior parte dei casi non strettamente connessa ad un modello mendeliano di ereditarietà.

A tutto questo si aggiungono poi fattori ambientali che sembrerebbero concorrere alla patogenesi della malattia.
In particolare, alcune patologie croniche come l'ipertensione arteriosa, le malattie cardiovascolari, il diabete mellito, l'obesità-sovrappeso, l'ipercolesterolemia sembrano rappresentare tutti  fattori predisponenti, dovuti a meccanismi legati all'insulino-resistenza, alla ridotta produzione di acido nitrico, all'eccesso di radicali liberi e a metaboliti infiammatori.

Dati epidemiologici confermano infatti che la MA è maggiore nelle persone che seguono diete ricche di colesterolo e grassi saturi (contenuti nei derivati di origine animale) e povere in fibre. 
E' stato visto in particolare che elevati livelli ematici di colesterolo (1), obesità e adiposità addominale nell'età media e presenza di sindrome metabolica, rappresentano tutti possibili fattori di rischio (2). Al contrario, l'elevata assunzione di antiossidanti, composti polifenolici , vitamina E e C contenuti in abbondanza in alimenti di origine vegetale come frutta e verdura (3) sembrerebbero avere un importante ruolo neuroprotettivo e di mantenimento della neuroplasticità. E' stato osservato, poi, che anche gli isoflavoni della soia in donne in post menopausa  sembrerebbero assolvere un ruolo protettivo in quanto legati alla inibizione e all'accumulo di aggregati di beta-amiloide (4).
​
Sempre più evidente è, quindi, l'innegabile beneficio che  una dieta mediterranea, strutturata su base vegetale, può avere anche nel contrastare le malattie neurodegenerative come l'Alzheimer.
Anche in questo ambito, il punto di partenza per la prevenzione è consumare giornalmente 4 o 5 porzioni tra frutta e verdura, preferire prodotti non raffinati come riso, pane e pasta integrali, moderare il consumo di sale, ridurre il consumo di carne rossa, utilizzando, invece, più spesso  legumi, carne bianca, pesce e formaggi magri.

1. Midlife vascular risk factors and Alzheimer's disease in later life: longitudinal, population based study - Kivipelto 2001
2. Metabolic syndrome and cognitive decline in French elders: The Three-City Study - Raffaitin 2011
3. The incidence of dementia and intake of animal products: preliminary findings from the Adventist Health Study - Giem 1993.
4. Isoflavones and Alzheimer's disease: the effects of soy in diet - Habib 2014

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Osteoporosi

12/6/2017

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La perdita di massa ossea con l'età è un processo fisiologico ma, quando supera una certa entità, diventa una malattia cui si dà il nome di osteoporosi e che rappresenta il disturbo più comune del metabolismo minerale osseo in età avanzata.  L'osteoporosi è caratterizzata da una compromissione della resistenza ossea che predispone a un maggior rischio di fratture che rappresentano l'epifenomeno clinico della malattia, pur potendo decorrere per anni anche in maniera del tutto asintomatica.

Attraverso la correzione dello stile di vita e il trattamento farmaco-terapeutico è possibile in molti casi ridurre o addirittura arrestare il decorso della malattia.

Uno studio recentemente condotto dall'OMS ha evidenziato che l'osteoporosi interessa, attualmente, oltre 75 milioni di persone in Europa, Stati Uniti e Giappone, con un rischio stimato del 15% di andare incontro ad una frattura vertebrale del polso o dell'anca nell'arco della vita. E' stato, inoltre, pronosticato che nel 2050 l'osteoporosi interesserà tra i 7,3 e i 21,3 milioni di persone nel mondo. Solo in Italia studi epidemiologici, con dati raccolti tra il 1999 e il 2000, mostrano che la malattia nel sesso maschile riguarda il 14,5% dopo i 60 anni ed il 22,8% delle donne dopo i 40 anni.

La massa ossea dipende dal bilancio tra la quantità di osso formato dagli osteoblasti e la quantità di osso riassorbito dagli osteoclasti. Così la massa ossea aumenta nelle prime tre decadi di vita (in maniera importante nelle prime due e lievemente nella terza) per raggiungere il picco di massa ossea tra i 20 e i 30 anni. Il picco di massa ossea raggiunto alla maturità scheletrica (20-30 anni) è il principale fattore che incide sulla massa ossea nelle età successive ed è determinante nello sviluppo dell'osteoporosi.  La massa ossea in una certa età è determinata, infatti, dalla risultante della differenza tra osso acquisito durante l'accrescimento (massa ossea del picco) e quella persa nelle epoche successive, perdita che si accelera dopo la menopausa a causa della carenza di estrogeni. Dopo la menopausa, infatti, l'assenza di estrogeni favorisce la scomparsa dell'inibizione dell'attività osteoclastica con conseguente aumento del ritmo di demolizione ossea. Contemporaneamente il calo di estrogeni compromette l'efficacia del riassorbimento intestinale del calcio alimentare e, come conseguenza, diminuiscono i livelli ematici di calcio con conseguente aumento di paratormone (PTH) che riporta la calcemia a livelli normali attraverso la stimolazione del riassorbimento dell'osso. L'effetto netto è la perdita di massa ossea.

Alcuni fattori nutrizionali o dello stile di vita, così come la presenza di altre patologie associate, possono comunque accelerare la perdita ossea indipendentemente dal calo estrogenico. Le cause predisponenti dell'osteoporosi sono, infatti, definite multifattoriali e sono legate a predisposizione genetica, stato fisiologico, apporto di calcio, vitamina D, attività fisica, peso corporeo e non ultimo alimentazione.

Per prevenire l'osteoporosi  l'obiettivo è:
  • raggiungere nelle prime fasi della vita dell'individuo un picco di massa ossea ottimale adottando un corretto regime alimentare ed un corretto stile di vita  (prevenzione primaria);
  • porre una diagnosi precoce attraverso interventi strumentali come la densitometria minerale ossea (MOC) o la DEXA (Dual-emission X-ray absorptiometry) considerate il gold-standard per la valutazione della densità minerale ossea (prevenzione secondaria).

Secondo le linee guida internazionali OMS (Organizzazione mondiale della sanità) nell'ambito della prevenzione primaria è inoltre necessario:
  • Astenersi dal fumo;
  • Evitare il sedentarismo e favorire l'attività fisica;
  • Evitare deficit di vitamina D assicurando una corretta esposizione al sole e, se necessario, intervenire  con opportune integrazioni  (la vitamina D è prodotta dal nostro organismo a partire dal colesterolo ma, per essere convertita nella forma attiva, la D3 detta anche colecalcilferolo, è necessaria l'esposizione al sole);
  • Promuovere uno stato nutrizionale corretto con adeguate assunzioni di calcio (1000-1200 mg /die) e proteine ad alto valore biologico (soprattutto negli anziani) principalmente di fonte vegetale evitando gli eccessi per mantenere un buon equilibrio acido-base.

Questo è possibile attraverso un uso appropriato di alimenti ricchi di calcio e vitamina D come latte vaccino e/o bevande vegetali addizionate (latte di riso, di soia ecc.), yogurt, legumi, frutta secca (es. mandorle),  semi oleaginosi (es. sesamo), verdure (es. rucola, radicchio verde, cavolo cappuccio, indivia, tarassaco, foglie di rapa, carciofi, broccoletti di rapa), erbe aromatiche (salvia, rosmarino, basilico, menta), pesce azzurro (es. sgombro e salmone) e uova.  Anche un buon apporto idrico è necessario e l'acqua già contiene buone fonti di calcio (es. acque minerali bicarbonato-calciche).
​
In conclusione, nell'ambito di una dieta varia ed equilibrata, non facciamo mai mancare questi alimenti incidendo, a scopo preventivo, in modo corretto sulle nostre abitudini alimentari e sul nostro stile di vita. 

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